Doppio sogno dell’arte –
LA VITA È SEGNO
Quarant’anni di gioia creativa
di Valter Rossi
Catturato da uno sguardo…
Lo sguardo è stato per me, come un faro permanente sulle cose, sulle persone, sui sentimenti, un pilota sicuro in tutta la mia vita.
Dove mai l’ho vista?… Per quale ragione la mia attenzione, che dovrebbe essere solo per l’esame, non riesce ad annullare questa tensione, questa curiosità; quell’occhio a mandorla, quella fossetta sulla guancia?…
Un veloce extempore, quasi dimenticando quanto mi era costata quella meta che avrei dovuto conquistare in quel momento; non pensavo certo a tutti gli anni di collegio che con quell’esame avrei buttato, finalmente, alle mie spalle… dovevo essere pronto a seguirla!
Eppure fu un solo incontro, per caso, un anno prima, alla Capannina di Forte dei Marmi, in una sera di confusione, dove il mio occhio cercava di cogliere la tensione, la risposta sottile che mi aspettavo… probabilmente ci fu! Me ne accorsi quando mi ricordai dove l’avevo vista.
Era la donna della mia vita? Era il pezzetto di radice rimasto dei miei affetti figliali? L’essere solo al mondo a dieci anni mi aveva spinto ad una ricerca attenta e sistematica a distinguere la qualità del voler bene e del sentirsi amare.
La mia età, in quel momento, non era quella anagrafica ma quella costruita da una somma di desideri che anticiparono la mia crescita, facendomi saltare razionalmente la fase dell’adolescenza.
Eleonora in quell’attimo mi aveva lanciato un messaggio fulmineo, facendomi intravedere il fuoco e la passione di cui anch’essa aveva desiderio e necessità per far affiorare la sua personalità ermetica. Anche lei era molto sola, in modo diverso, ma sola.
La sua famiglia, durante la guerra, per il lavoro del padre, aveva cambiato più volte città, fino al momento in cui lei ed il suo fratellino furono lasciati ad Urbino con la zia Iole: professoressa di lettere, magnifica educatrice, intransigente e severa, consapevole del peso delle sue responsabilità.
Il distacco dai suoi fu, proprio nel momento della sua formazione, in cui la famiglia, specie a quell’epoca, era il solo punto di riferimento. Sicuramente una zia zitella non colmava la fame d’affetti di Eleonora.
La nostra “solitudine” fece da richiamo, e scatenò in noi il bisogno di dimostrare le grandi affinità che ci univano, scoprendo la concretezza delle nostre fantasie.
Sentirti uomo
Da anni, in estate, era scontato andare a Forte dei Marmi con la mia famiglia. Quell’anno ottenni, con difficoltà, il permesso di trascorrere alcuni giorni da amici, a Riccione, ricevendo il denaro sufficiente per una limitata vacanza, lì avrei trovato Eleonora!
Con enormi sacrifici lo feci bastare per più di un mese, anche perché la mia dolcissima zia Anna, che mi fece per anni da mamma, arrivò a finanziarmi un paio di volte con la promessa che sarei tornato al più presto a Forte.
A Riccione i miei amici non si accorsero della mia presenza, né io di loro. Eleonora ne fu felice!
Al mio rientro a Milano chi mi aprì la porta fu mio zio Adelio.
“Scusi, chi vuole?…”. “Ma zio Adelio, sono io… Valter! …”.
“Valter..? Cosa ti è successo, sei irriconoscibile ! Sei molto maturato… sembri un uomo”.
Sì!… ero diventato un uomo. La consapevolezza di non aver più la sensazione d’essere solo, di pensare a due, mi dava una sicurezza che non avevo mai avuto.
In quel momento, avrei voluto raccontargli ogni istante, ogni particolare, e forse sbalordirlo… “Sai… tra Gabicce e Cattolica non c’era angolo appartato che non ci accogliesse con generosità e improvvisamente tutto diventava facile, gli imbarazzi diventavano esperienza un istante dopo, tutto cresceva con ritmi esaltanti, in un rimescolarsi di sentimenti e sudori, creando un plasma magico. Si sguazzava in quel sudore come fossimo appena nati e da dove ci risvegliavamo certi d’aver potuto raccontare quell’esperienza l’uno all’altro, per questo “sicuramente vera”.
Da qui il passato si annulla, rimanendo solo i ricordi più cari, come dei punti fermi che mi aiuteranno a crescere, però senza grandi radici.
La maturazione avvenne tutta in una volta. I tempi del liceo stavano finendo e volevamo ad ogni costo abbreviarli; non bastavano più le ore del giorno per stare insieme e, per ritardare il distacco, allungavamo i saluti, interminabili, con gli sguardi e, alla fine, sempre più lontani, con gesti ad ogni angolo della strada.
Anche le ore della notte sembravano rubate alla nostra vita.
Nasceva il “New Graphic Studio”, il primo pretesto per arrivare velocemente ad una autonoma attività produttiva, mentre ancora frequentavamo con passione l’accademia. Eravamo due soci studenti, molto giovani ma già pieni di voglia di fare: marchi, cataloghi, amore… amore…
Assistenza alla stampa, eseguita da noi su una vecchia macchina smessa dalle Arti Grafiche. Questa era l’industria, da alcune generazioni, di proprietà della nostra famiglia. Avevano iniziato con i caratteri di legno, poi erano passati alle macchine rotative sempre più sofisticate, pronte a produrre grandi tirature, utilizzando tutte le tecniche: tipografiche, offset, rotocalco.
Poi ebbi responsabilità direttive in una nuova azienda del gruppo, proprio la rotocalco, tecnica di stampa ai suoi esordi, dove nessuno capiva qualcosa.
Pur giovane, la passione per la stampa prevalse su qualsiasi e qualunque fatica fisica e psicologica. L’odore della carta, l’odore degli inchiostri, del piombo delle linotype e il battito dei martelli delle rotative erano nel mio DNA. Nessuno all’inizio pensava che un giovane ventenne potesse dirigere una cinquantina di esperti del settore, catturati alla Rizzoli e alla Mondadori, e finalmente far uscire una rivista come “Spazio”, a cura di Maner Lualdi, senza finire protestata.
Fu una grande scuola di lavoro e di vita perché il “mondo” dell’informazione e dell’attualità, in quegli anni, era ancora alla ricerca della tecnologia. A livello redazionale, si vivevano le difficoltà dei tecnici addetti alla preparazione e alla stampa. Era una famiglia che sopportava stati d’animo fibrillanti. C’era senz’altro ancora molto empirismo, in particolare nella parte di galvanoplastica e incisione1.
Eravamo veramente ai primordi e fu qui che appresi quei segreti che mi furono utili qualche anno dopo.
In ogni caso, tutti gli sgomenti e gli smacchi venivano superati da quella presenza, da quello sguardo che sapevo presente in qualsiasi momento, magari attraverso una camera oscura, dove Eleonora si adattava, per starmi vicino, a ritoccare le fotografie con quella precisione che è stata in ogni momento e situazione, il dono primario.
Gli Etruschi
Ricordo con gioia lo stupore e le emozioni che avevo già letto negli occhi di Eleonora, anni prima quando eravamo ancora al liceo. Fu il giorno che entrammo in una tomba Etrusca che nessuno aveva violato prima di noi.
Ci apparvero quei segni essenziali, magici, pieni di poesia.
Tutta quella storia dell’arte studiata a Brera ripassava in pochi istanti davanti ai nostri occhi; penetrava in noi e, forse, per la prima volta, capimmo quanto era stato importante saper leggere quello che ci stava davanti e goderne insieme. Era il preannuncio di quanto nell’arte avremmo poi apprezzato e sofferto.
Furono Mimì e Matteo a traghettarci nel mondo archeologico con gite meravigliose da Spina a Veio, a Montalto di Castro, a Tarquinia e in tutti quei posti che sapevano di antico.
In una notte di luna piena, durante un viaggio in macchina, a Cerveteri, cantando come matti, senza pensare a nulla, improvvisamente, apparve un cartello stradale.
Ci interrompemmo tutti e, allo stesso tempo, esclamammo:
“O cipressetti, cipressetti miei…”. Era Bolgheri.
Le nostre gite si tramutavano in veri tours de force; Mimì era stata la nostra professoressa di matematica e fisica e i nostri cari avevano in lei la massima fiducia, quindi godevamo di una copertura doppiamente favorevole. I nostri amici, essendo giovani e innamorati come noi, avevano capito che non ci saremmo fermati davanti a nulla.
La loro comprensione ci aiutò moltissimo a raggiungere le mete che avevamo previsto.
La prima, fu quella di dedicarci intensamente all’archeologia. Questo ci aiutò a farci guidare dalla sensibilità e a capire cose mai apprese prima. Per esempio, imparammo, da pochi elementi, a trovare un numero incredibile di possibili risposte e, poi, filtrarle, al punto di togliere tutte le incognite e dare solo risposte certe.
Ci dedicammo con grande passione al restauro.
Qui serviva grande umiltà e chiarezza di idee per rendere vivi oggetti che parevano aspettare di essere ricostruiti per rinascere.
Eravamo talmente presi da questo mondo che la nostra immaginazione non si fermava mai e, quando non potevamo scoprire cose nuove, ci avventuravamo nelle tecniche che avevamo imparato.
Ricostruivamo intere scene con tale precisione e meticolosità che solo la dimensione ne poteva smentire l’originalità. In verità, mettevamo a dura prova anche bravi esperti.
Tutto ciò non portava alla nostra meta che era, in quel momento, di poter vivere insieme. A quei tempi voleva dire una cosa sola: matrimonio.
Fu difficile portare le famiglie a stabilire date, per loro era sempre troppo presto.
Finalmente ci riuscimmo: “otto ottobre”. Era il 1960.
La nostra prima casa a Milano, in via Ronzoni, ci piaceva molto ma sapevamo, in cuor nostro, che sarebbe stata sicuramente una casa a breve termine.
Il primo desiderio era quello di staccarci dal cordone ombelicale milanese, nonostante tutto ciò che comportava.
Il matrimonio fu convenzionale, nella Chiesa di San Satiro.
Quella grandiosa “prospettiva” dell’abside, la sentivamo come una rampa di lancio per il futuro: Bramante era uno dei nostri amori, ci stupiva sempre, come fosse nato per far sapere al mondo quanto slancio Giotto gli avesse dato per la sua ardita ricerca.
Il gesto benedicente di Don Oreste, che ci sposò, fu il taglio definitivo con il passato. In quel giorno, nella mia memoria, si riaffacciarono molti miei compagni, ma sfilarono come personaggi di carta di un teatrino cinese, come ombre, senza alcuna consistenza.
“Ma… Rossi… che cosa crede di essere!!… il padrone del collegio? Questo autobus chi l’ha prenotato?… Che cosa sta succedendo?…”. “Signor Preside… oggi c’è l’incontro di calcio a Milano, con il Gonzaga, non se lo ricorda? Avevamo giurato che dopo l’ultima batosta ci saremmo rifatti… eccoci pronti! siamo forti!… Signor Preside, abbiamo fatto una colletta con i genitori, la domenica scorsa, e abbiamo pagato tutto: due palloni, le divise con lo stemma del collegio. L’affitto dell’autobus è stato pagato dal papà di Castagna”.
“Ma, Rossi… la squadra non è composta da undici persone? A cosa serve un autobus di queste dimensioni?”.
“Signor Preside… per i tifosi…! sono 42, compresi però il Prof. Omboni di ginnastica, la Professoressa Bonetta e Don Oreste… per la verità… c’è un altro autobus, si trova fuori, pieno di genitori che stanno aspettando di partire. Abbiamo la partita alle 2 e 30 e siamo un po’ in ritardo. Abbiamo organizzato il pranzo con dei panini per fare alla svelta, anche perché il professor Giannotti non ha voluto accorciare matematica, perciò, siamo al limite, mangeremo sul pullman”.
“Rossi…! Mi raccomando… non succeda come con le lepri… lei sa a cosa mi riferisco… siamo intesi?”.
(“Don Oreste con Rossi e Corradi cacciatori di raro valore…………….. oh errore fatale dei figli han scambiato per lepri i conigli!”.
È una parte della poesia che circolò in collegio dopo un’infelice battuta di caccia a dir poco ingenua, rimasta famosa per anni dopo che il Preside dovette pagare il contadino per il danno subìto).
Di quell’incontro di calcio si parlò persino al matrimonio. Don Oreste, quel giorno, ci abbracciò tutti: la vittoria contro il Gonzaga fu per lui la più grande rivalsa perché il Rotondi, contro quella squadra, non aveva mai vinto.
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Primo cenno premonitore!
“Sono Franco Cioppi, il cugino di Eleonora, vengo da Urbino…”. Si presentò: un bel faccione: capigliatura, barba e baffi alla fratelli Bandiera, occhi piccoli espressivi e uno “sguardo” che voleva essere convincente ma aveva l’eterno dubbio tipico dei diffidenti, e soprattutto dava il senso di una grande premura. Sembrava stesse perdendo tempo con noi. Ricordo solo che parlò di una stamperia che stava impiantando a Roma e che sarebbe stata un avvenimento.Un saluto e via, un meteorite che lasciò sicuramente una sua impronta perché, stranamente, intuimmo che ci aveva comunque trasferito una parte della sua carica. In quel momento, però, si tradusse solo in curiosità.
Con il matrimonio, immediatamente, maturò anche la consapevolezza che il lavoro a cui mi ero dedicato, fortemente, poteva essere una gabbia da cui uscire solo da vecchio, per stanchezza, o prima, per infarto.
Ebbi l’opportunità, in quel periodo, di conoscere un buono stampatore: Leschiera. Lavorava per alcune piccole case editrici con molta competenza e da tempo cercava l’occasione di spiccare il salto da artigiano a industriale ma, da solo, non ne aveva il coraggio, attendeva un’opportunità, se mai gli fosse capitata.
La mia insoddisfazione, ormai chiara e manifesta, nell’ambito della famiglia, fu considerata come una ribellione, perciò contestata e vista come un gesto d’ingratitudine: per loro avrei dovuto essere felice del mio lavoro che, in qualche modo, era già più di quanto fossi in grado di gestire.
Io volli forzare i tempi per dimostrare, prima a me stesso, e poi ai miei parenti, che mi avevano sottovalutato.
Incominciai a considerare la possibilità di aprire un’industria di stampa vicino Roma, dove esistevano aree industriali agevolate. Ne parlai all’amico Leschiera, che non aspettava altro, e che si tuffò nell’impresa con un entusiasmo che mi meravigliò ma, allo stesso tempo, mi rese più facile tagliare con il mio passato e con la mia famiglia.
Le aspettative industriali di Roma in quel periodo erano puntate su Pomezia, ad una trentina di chilometri dalla città. Qui le prospettive politiche erano molte, ma il risultato a quel tempo era solo in due aziende, tre con la nostra, impiantata in tre mesi, partendo da un terreno agricolo che avevamo comprato da un contadino del Polesine. A costui il terreno era stato assegnato durante il periodo Fascista, dopo la terribile alluvione provocata dal Po.
Per lui, come ben ricordo, non fu un distacco, ma quasi un passaggio del testimone, perché, con quella vendita, realizzava probabilmente il sogno di ritornare nei suoi luoghi d’origine
La mia determinazione fu tale che, al quarto mese, l’azienda era già operativa, creando seri problemi nell’ambito della famiglia, sorpresa e sconvolta perché in pochi mesi era nato un concorrente inaspettato e pericoloso. Già una grossa fornitura di stampa stava girando sulle rotative a Pomezia, piuttosto che a Milano, e non era più una probabilità, ma una certezza.
Fu un’esperienza esaltante perché, pur avendo tutta la responsabilità, non ne sentivo il peso. Per la prima volta in vita mia non dovevo confrontarmi con nessuno, se non con me stesso, e toccavo tutti i campi: tecnico, amministrativo, commerciale e finanziario; una visione generale.
Ad un certo punto incominciò ad affiorare il dubbio fosse troppo facile, che ci potesse essere un tranello.
La risposta ai miei dubbi fu scioccante.
Mi chiamarono improvvisamente da Milano, per avvertirmi che mio zio paterno aveva avuto un infarto e, le voci più maligne, attribuirono questa disgrazia al mio comportamento.
La cosa, oltre a colpirmi affettivamente, mi mise immediatamente nella posizione di reagire perché la mia decisione non voleva certo punire chi mi aveva allevato come un figlio, ma solo dimostrare che ero in grado di muovermi da solo, in un mondo che credevo più forte, quasi inattaccabile. Non era così.
Nella gestione commerciale di famiglia si era commesso un errore di presunzione. Si pensava che tutto fosse sotto controllo e che, meritevoli di aver avuto l’intuizione iniziale, nessuno mai avrebbe osato interporsi in questo diritto acquisito.
Tesi che mi fu confermata dagli eventi successivi e, in qualche modo, mi fece rileggere il mio progetto in modo diverso. Pensai che stavo ripetendo quanto mio padre e i suoi fratelli avevano fatto molti anni prima a Milano.
Questa considerazione fu talmente chiara che al primo approccio da parte dei miei, per trovare una soluzione e tranquillizzare lo stato d’animo di mio zio, ne approfittai per proporre una fusione societaria che rafforzasse il corpus familiare.
Trovammo facilmente un accordo che rese tutti soddisfatti e che lasciava a noi la possibilità di avere un orizzonte aperto a 360°.
La premonizione si avvera
Tutto sbarbato, reso un po’ borghese dall’Urbe, Franco Cioppi, il cugino artista di Eleonora, si affacciò al momento giusto, proponendoci un progetto che, in qualche modo, ci portava a rivivere ciò che avevamo amato nel periodo studentesco: “il mondo dell’arte”.
Questo provocò in noi un interesse immediato al punto che, in pochi giorni attivammo un piccolo studio sul monte Aventino con l’intento di sperimentare nuovi modi di intendere la ricerca delle tecniche grafiche.
L’amore per la stampa d’arte si manifestò immediatamente, anche perché Franco mi proponeva, giorno per giorno, tecniche che aveva realizzato in modo eccezionale. Lui le aveva pensate per una sua ricerca pittorica e anche se avevano dato buoni risultati erano empiriche. Non era che l’inizio di una profonda e inesauribile ricerca.
Per procedere in modo corretto, si doveva partire da zero. Dovevamo capire come potevamo proporci in veste di innovatori della stampa d’arte rimanendo nei canoni, ma senza diventare accademici.
Sapevamo di occupare quella posizione scomoda, mal valutata, di “tecnico artista” che spesso creava false interpretazioni, ma andava finalmente definita e superata.
La risposta la diede Lucio Fontana2. Lui ci fece capire, con i suoi lavori, quanto la lettura di un’opera d’arte poteva essere così lontana e indifferente per uno che non sapeva leggerla, e, allo stesso tempo, così vicina e necessaria per altri.
Ci dimostrò come non esistono confini di comprensione, purché si trovino le chiavi di lettura che, nel suo caso, erano di vera libertà. Dava spazio a tutti con la sua umana generosità e, ancor più, con la sua pittura, aprendo voragini di conoscenza ai giovani e futuri artisti di tutto il mondo, non facendone però mai sentire il peso.
La sua genialità seppe cogliere a tal punto il senso del termine “spazio” che, con un semplice gesto, aprì al mondo lo “spazialismo”, forse la prima consapevole “pittura scultura”.
Il famoso taglio della tela, quel semplice gesto, assolutamente “concettuale”, fu l’attimo di poesia che mancava.
Un giorno mi trovavo nel suo studio a Milano mentre firmava una tiratura di litografie stampate da altri e mi disse: “queste stampe le firmo ma non sono soddisfatto… tu sapresti far meglio?”.
Era la sfida che attendevo!
Quella che serviva era una cristallina semplicità. Eravamo pronti a rinunciare, forse, a tutto ciò che fino a quel momento avevamo sperimentato, trasferendoci nella sua dimensione grafica, come se venissimo da un limbo incontaminato, dove Fontana ci attendeva.
Non fu difficile trovare le giuste indicazioni perché, per Lucio, la carta era un supporto ideale.
I metalli, poi, lo intrigavano, ne vedeva sempre la parte esposta, la terza dimensione era sempre solo spazio immaginario con tutta la sua leggerezza e immensa profondità.
La superficie pura delle lastre di rame che avevamo preparato non lo intimorì minimamente; fiducioso, come sapeva essere, non aveva dubbi sull’impegno che ci stavamo mettendo e si accordò immediatamente con noi. Così, senza accorgerci, si realizzò forse la prima “incisione spaziale”.
La carta si apriva alla terza dimensione sotto la pressione del “torchio” che insisteva sulla lastra con uno sforzo tale da farlo saltare. Forse avevamo chiesto troppo a quella prima nostra macchina.
Con quella iniziale serie di incisioni, Fontana vinse il primo premio di grafica a Tokyo. Ricordo ancora con quale entusiasmo e convinzione ci presentò un giorno al gallerista Bruno Herliska alla Galleria Marlborough di Roma, galleria dove Lucio esponeva: “Non dire bravo a me! Senza di loro queste opere non sarebbero mai nate… sono tecnico poeti… insomma, artisti…! Devi assolutamente lavorare con loro!”.
Nello studio di Fontana, in Corso Monforte a Milano, si respirava sempre un’aria di spontanea cultura. Nessuno ti forzava a colloquiare e, pur nel silenzio, riuscivi a trasmettere la tua curiosità solo osservando lo svolgersi del lavoro.
Fontana spiegava con parole semplici ciò che stava realizzando e, alla fine, il più sorpreso era lui, come un bimbo che scopre nei suoi primi segni la presenza di un elemento o forma conosciuta.
Non aveva certo paura di sembrare barocco, né troppo elegante, anzi amava utilizzare, con grandi rischi, materiali e colori, sorprendendo e meravigliando anche i più critici per il rigore che, alla fine, le sue opere riuscivano ad esprimere.
E la parola “elegante” si addice in modo assoluto all’uomo Lucio Fontana che aveva una presenza straordinaria, una raffinatezza innata, un Clark Gable, per le signore.
Le stesse frequentavano il suo studio, prese dal suo fascino, il sabato, per il “momento della figurazione”, facendo da modelle, per lo più nude.
Continuò ad essere una costante per tutta la sua vita.
Ricordo che al nostro ultimo incontro, avvenuto nella sua casa sul lago, mi disse: “Questo posto per la mia salute va bene!… l’unica cosa che mi manca… è di non poter toccare il sedere di una bella donna”.
Le incisioni di Fontana furono la vera presentazione che ci permise di alzare il mirino e avvicinare artisti fino a quel momento impensabili.
La grande amicizia, Alberto Burri
Burri aveva fatto alcune limitate esperienze nel mondo della grafica, ma capì subito che avremmo potuto, per il suo modo di fare pittura, essere di grande aiuto, se non altro inizialmente, per risolvere un problema che lui aveva da anni.
Il famoso libro Variazioni, realizzato con il poeta Emilio Villa, era stato presentato già nel 1957 come un piccolo libro di poesie del Poeta, con la copertina e due soggetti originali realizzati da Burri, originali molto preziosi, probabilmente troppo preziosi e troppo costosi per rendere il libro commercialmente vendibile. Era il momento in cui, in pochi anni, le quotazioni di Burri si erano alzate enormemente.
La nuova idea fu quella di ripubblicare il libro realizzando la copertina e le due immagini interne con tecnica grafica.
Ebbe inizio così, con il geniale artista, la sperimentazione più lunga ed entusiasmante della nostra vita. Burri non aveva interesse per ciò che sapevamo fare, ma per quello che avremmo potuto immaginare di fare.
La prima mostra che vidi di Burri fu a Roma nel 1954, alla Galleria l’Obelisco.
Entrando nella Galleria, mi apparve la stessa visione sconvolgente che ebbi nella mia infanzia, quando dopo anni di sfollamento per la guerra, rientrai con la mia famiglia a Milano.
La città mi si presentava con ferite disastrose, in un tessuto architettonico così severo, così chiaro, come se tutto fosse stato previsto nel disegno di un solo architetto. Quelle ferite racchiudevano un nuovo spazio a disposizione di una nuova creatività.
Per capire profondamente Burri non si può prescindere da Cesare Brandi, che con la sua immensa saggezza e cultura, è riuscito a trovare il giusto spazio nel suo libro Terre d’Italia, nel capitolo Visita a Burri.
Mi permetto, per l’amicizia che ci legava, di scrivere alcuni frammenti:
…… Così si alza presto la mattina e dietro un cespuglio di coviglie o stoviglie, che sono una specie di ginestra o di scopo, si apposta: c’è il passo, e Burri spara. Ahimè il passo non c’è, ci dovrebbe essere e quel magro per quanto meraviglioso arrostino che si mangerà alla sera, quante ore d’attesa – e per me sarebbe tedio – non ci saranno volute. Ma non per chi ama questi luoghi come una patria rinnovata da una memoria precedente, riconosciuta senza averla prima conosciuta, Oh, non certo da una vita anteriore, non in un miraggio di paramnesia, ma perché questo è il luogo, alpestre, senza strade asfaltate o non asfaltate per arrivarci, nudo di persone perché tutti i pochi contadini fuggirono e le case sono deserte, ma anche quelle così poche, che ecco l’edificio meglio conservato e appariscente, sul costone del monte dirimpetto, è la cappella del cimitero. La casa dei morti così ben esposta al sole, che le povere ossa crocchieranno al giorno del giudizio.
…… Questa era la campagna che voleva Burri, e tanto gli si addice e tanto gli assomiglia, a quel suo carattere ombroso e aperto, scostante e generoso. È come un ossimoro continuo, non si può definire che opponendogli il suo contrario: questo grande artista la cui prospettiva nel tempo è sempre più netta e sicura.
…… Quelle di quest’anno sono poche: non c’è bruciature, ma quel nero acrilico come di un grosso moscone vellutato. Quel nero che fa macchie precise e irregolari che evocano tante cose senza rassomigliare a niente. Sono macchie dense, e tutte fanno pensare al sole nero dell’alchimia, un sole con fasi strane, non così eleganti come quelle della luna, sempre ammaccate, come se in questo forzato eclisse si storcesse per sfuggire l’ombra e non gli riuscisse. Poi, a tratti c’è un velo di plastica trasparente: basta quel velo parziale per far cangiare il bianco purissimo del fondo: la superficie si addensa come quando l’acqua gela.
…… Orbene Burri non ha mai dipinto né dipingerà il paesaggio alpestre di Case nuove, questa sella che dà sulla Toscana, sull’Umbria, sulle Marche, un luogo di passo di cui gli uccelli non vogliono passare o passano troppo alti. Ma questo luogo è il suo luogo, un po’ al modo del toro, che, nell’arena, sceglie il suo spazio e lì non può essere attaccato, non deve essere attaccato. Ecco Case nuove, come lo spazio del toro. Ma quanto gradevole per gli ospiti, per i visitatori. La semplicità e il conforto di quella casa, i funghi del bosco, cotti sulla brace di castagno, e gli arrostini d’uccelli – i pochi che cadono per inesperienza fatale – in nessun luogo se ne mangiano d’uguali.
Queste poche note focalizzano l’uomo Burri, l’Artista meraviglioso che abbiamo avuto la fortuna di aver amico, la persona che più al mondo rappresenta la sua terra con tanta coerenza e poesia. Il Maestro intransigente che ci ha formato ad una scuola di libertà con regole talmente chiare, perché etiche, che ci hanno condotto attraverso la logica conseguente ad un atto di vera poesia. Espressa “sempre” in maniera forte, senza mezzi termini, con rigore sistematico, dove ogni cosa va al suo posto, come fosse scritto: ….. sempre che si usino gli strumenti appropriati.
Incontrammo però un primo ostacolo: Franco Cioppi, da buon professore di grafica, non intendeva staccarsi dagli strumenti e dai metodi che la tradizione impone come norma. Sciorinò tutto ciò che sapeva, non tenendo conto che Burri invece voleva quello che la nostra “immaginazione” avrebbe dovuto proporre.
Ci vollero mesi prima che Burri ritornasse al nostro studio, dopo la prima catastrofica esperienza tecnica.
Fu determinante la conoscenza di Cesare Brandi, che incontrai più volte nel periodo in cui frequentavo lo studio di Burri a Grottarossa (Roma) e a Morra (Città di Castello). Fu lui che incominciò a parlare del libro, mai finito, di Emilio Villa.
Probabilmente, la decisione di riprendere la ricerca, Burri, l’aveva presa molto tempo prima, ma amava tenerci sulla corda per stare alle sue regole, che erano impegno intellettuale e devozione nell’amicizia.
La combustione fu il primo cimento, mentre davamo già per realizzata la copertina e l’interno del libro. L’immaginazione aveva già risolto, almeno concettualmente il problema, mentre la combustione, così indefinibile, ci vedeva in un limbo insormontabile. Come realizzare quell’impalpabilità? Quei neri così intensi e vellutati?
La cosa che mi permise di intravedere uno spiraglio fu il notare quanto la “puntasecca”1, come tecnica, rispetto all’acquaforte1, rendesse il segno, se non altro il segno, con un’enfasi di irraggiungibile definizione dal bianco al nero, con quell’alea indefinita, come se il segno affiorasse sotto la carta, quasi assorbito in un unico corpo. Ciò che appare non è che la punta di un iceberg.
Il solco, derivante dall’attacco dell’artista con la punta sopra il metallo, lascia all’esterno del segno stesso una sbavatura che è il metallo che si sposta. Proprio come fa l’aratro quando attacca la terra e, mettendola alla luce, la deposita al bordo del solco facendola rivivere. Così il metallo che fuoriesce, al momento della inchiostrazione e della pulizia che si effettua col palmo della mano, non gli permette di entrare più di tanto all’interno del solco, facendo rivivere il segno in modo indefinibile.
A stampa effettuata, il tutto, è colmo di magia.
Com’era possibile raggiungere questo valore con l’acquatinta1? Come rendere indefinito il punto anziché la linea?
O meglio, rendere sfumati i punti che creano l’acquatinta?
Mi venne in aiuto l’esperienza fatta a Milano nell’attività editoriale, quando combattevo con la rotocalco, e in particolare con l’incisione e la galvanoplastica1.
Per la rigenerazione della superficie dei cilindri di stampa, e in quell’ambito, sapevo come togliere e mettere ioni di rame con estrema metodologia e controllo.
La soluzione fu questa: riportare rame, anziché asportarlo, con una serie di accorgimenti suggeriti, man mano, dai sorprendenti risultati che scaturivano come d’improvviso, fino ad arrivare ad un totale controllo e dichiararla tecnica compiuta.
Non è presunzione dichiararla tecnica compiuta, perché il risultato finale dell’opera che esce dai torchi è la parte concreta e visibile di una serie lontanissima di intuizioni, di rischi, di sofferenze, di sorprese; ma ciò che ci ha sempre più premiato, è di vivere momenti di magia impensabili, con una qualità tale da sentirti privilegiato e unico in quel momento.
Credo che queste nostre esperienze si possono paragonare, per l’emozione, a momenti nel campo della scienza, della medicina, della ricerca applicata, dove il risultato finale non è scontato, anzi! Quando appare, è come venisse da un mondo sognato, annullando tutti gli sforzi e le fatiche messe in atto, confermando una serie di ipotesi accantonate in attesa di convalida.
Premetto che, prima, si erano fatte prove di ogni tipo, per mesi, usando sistemi empirici, in un certo modo anche affascinanti, come, per esempio: usare sabbie, carborundum1 con diverse grane e dimensioni, fissandole con varie colle e sistemi. Tutto era grossolano, anche se interessante, certamente lontano dalla meta prevista; queste tecniche, comunque, furono poi utili per altri artisti.
Burri capì al volo il potenziale di questa innovazione e seppe anche come utilizzare la nuova acquatinta in modo essenziale, senza cedere al gusto tecnico, anzi castigandolo. Sfruttò solo una piccola parte con estremo rigore, tenendo tutto nascosto, sovrapponendo le lastre successive, facendo godere l’occhio solo attraverso un’eco impercettibile, come un sottile riverbero di pece.
Ci rendemmo anche conto che, per visualizzare quello che la tecnica esigeva, era necessario pensare ad un torchio che ancora non esisteva.
Alessandro Magno
Nacque così “Alessandro Magno”: una macchina senza limiti di pressione, un riferimento per tutte quelle che progettai negli anni successivi, anche più grandi, ma non più potenti.
Mai nessuno aveva preteso da un torchio quanto avevamo chiesto e stavamo per chiedere ad una macchina, per cui, nel nuovo progetto, utilizzai materiali e dimensioni inattaccabili.
Trovai, in un deposito della Marina Militare, l’asse dell’elica di una nave fatta di un acciaio speciale, di dimensioni e materiali impossibili da trovare sul mercato. Scoperta che risolse, in modo splendido e definitivo, qualunque quesito sulla torsione e la flessione, perché l’unico modo per modificare la sua coesione poteva essere la fusione.
Burri battezzò Alessandro con la serie delle “sei combustioni”.
Non c’era nulla che la pressione non mettesse in luce, nulla che potesse rimaner nascosto nelle lastre di rame.
La carta usciva da quel forzato amplesso rivitalizzata, come fonte della rinata trasformazione, della nuova identità assunta: quella di Opera d’Arte.
Per tutti i sei soggetti, l’impegno fu incredibile, una gravidanza continua, un parto pluri pluri gemellare con “il padre sempre in allerta”. Burri mi domandava come mai ci volesse tanto tempo per stampare. Ogni volta che cercavo di spiegargli le difficoltà ne gioiva. Lo vedevi dai suoi occhi, che scrutavano l’orizzonte quasi rafforzati, perché consapevole che solo da grandi difficoltà potevano uscire grandi risultati.
Una delle ragioni per cui Burri era molto determinato a lavorare con noi, nasceva dal fatto che quanto avveniva nel nostro studio, giorno per giorno, portava nuova linfa alla sua continua curiosità e ricerca, sempre inesauribile. Ancor di più, si era reso conto di quanto tutto ciò fosse utile per il processo di semplificazione che stava maturando nella sua pittura.
La grafica, dalla sua origine va oltre il cavalletto, non ha bisogno di tavolozza, né di preparazione di tele; il segno primordiale sulle pareti rupestri di “Altamira” non è diverso dal segno inciso sulle lastre di rame con la tecnica della puntasecca; il significato di un segno rimane nella mente dell’uomo per la sua sintesi come un numero, una lettera, è l’ossatura portante di qualunque opera pittorica e, addirittura, il sostegno e l’equilibrio di ogni scultura.
Burri, nella sua ricerca, ha voluto utilizzare la grafica proprio per ritornare alle origini, per recuperare i valori essenziali, come elementi di un nuovo più semplice vocabolario.
Da sempre, specie in Italia, il termine: “grafica”1,“stampa”1, “litografia”1, ”riproduzione”1, non chiarisce i valori o i limiti propri della tecnica coinvolta, anzi viene spogliata, il più delle volte, con termini impropri dai veri valori che distinguono l’opera d’arte da una mera riproduzione. Per esempio, qualunque grafica di Burri, per le ragioni che ho esposto, non teme confronto con una sua opera pittorica, anzi, è un atto di generosità perché permette, a più persone, di goderne il possesso e la lettura, sapendo che l’artista, nel suo inconscio, ha utilizzato un mezzo per diffondere i suoi simboli.
Si facevano viaggi stupendi in macchina, dove la conversazione divagava con grande respiro: dal suo Perugia al mio Milan, dal suo primo tentativo di fuga a Mompracen (aveva undici anni), bloccato dopo pochi chilometri dai genitori. Fino a toccare argomenti che ci portavano ad immaginare anche nuovi percorsi di lavoro, accostando la sua poesia alla mia immaginazione tecnica.
Era possessivo, e non lasciava molto spazio ad altri eventuali incontri che potessero interferire con la ritmicità che avevamo intrapreso, se non per artisti che godessero della sua stima (molto pochi) e, per quei tempi, irraggiungibili, come: Miró, Chillida, Pasmore, Sam Francis, Ben Nicholson, Gottlieb e pochi altri, già pietre miliari dell’Arte Contemporanea.
Probabilmente Burri, da grande perfezionista, aveva intravisto il percorso che avrei dovuto seguire e, a piccoli passi, mi portò ad avere incontri con artisti che lui stimava; come per caso, ma non per caso, sapeva benissimo quale era il momento giusto.
Luca Signorelli
Burri, dal suo studio in montagna, una mattina portò Eleonora e me a vedere la piccola chiesetta di Morra. Facendoci strada tra polli e galline, arrivammo al centro del piccolo luogo, non ponemmo domande, consapevoli di essere attorniati da qualcosa di assolutamente importante.
La luce abbagliante che filtrava dal tetto in parte divelto, schermava ed impediva all’occhio di visualizzare quanto Luca Signorelli aveva donato all’umanità, in un luogo così mistico e povero, così ricco e generoso di immagini.
Nel momento in cui, finalmente, lo sguardo si fece strada, scoprii in quegli intonaci il valore compositivo fino ad arrivare alla raffinatezza dei particolari. Particolari in buona parte negati dall’incuria e dal tempo che, in quel sacro luogo, avevano morso famelicamente, in attesa di una umana attenzione che avesse l’intelligenza di volerne il recupero.
Sentivo che non era un caso che noi fossimo lì; sicuramente, nella mente di Burri, esisteva da qualche tempo un progetto. Portava, ad affacciarsi a quel sito, chi poteva, secondo lui, condividere in modo incondizionato il suo sogno. Sogno che puntualmente si esaudì.
Molti anni più tardi, nel ’74, dall’Accademia dei Lincei, fu attribuito a Burri il premio Feltrinelli per l’opera grafica eseguita in dieci anni di collaborazione con la nostra Stamperia. L’importo di cento milioni di lire ricevuto da Burri fu totalmente devoluto per il restauro della chiesina di Morra, che non aspettava altro per risorgere ed essere rieletta e letta nel suo incredibile splendore.
L’incontro con Afro
Ricordo ancora quando Burri mi fece incontrare Afro, a Ca’ Nove, vestito con stivali, giacca da caccia di velluto e la sua irrinunciabile cravatta, pronto anche lui a partire per il passo al momento dell’albeggio: solo il caffè ci separava dal primo scambio di parole anche se, con gli sguardi, avevamo letto la simpatia che era nata uno per l’altro, non sapendo in quel momento il perché.
Una parte di noi si domandava se veramente il passo passava e se meritasse una tale levataccia. Solo il sorgere del sole ci avrebbe aperto la seconda parte dell’occhio, quella che analizza e ti fa vedere, al di là delle sensazioni emotive, la concretezza o no di quanto stesse accadendo, se mai fosse successo.
Quella mattina non si sparò, ma gli amici riuniti attorno al tavolo si comportavano come se avessero cacciato, parlando di ieri come fosse domani.
Per loro, quando si era lì, era scontato che si mangiasse selvaggina.
Burri, ad un certo punto spariva, andava nel suo studio e riprendeva il lavoro.
Afro si isolava in una stanza e leggeva.
Eleonora, al rientro dalle sue lunghe passeggiate, esaminava e classificava i reperti botanici; spesso era talmente presa dalla natura e dalla ricerca nei boschi che non si rendeva conto del tempo che passava ed eravamo costretti ad usare insistentemente il corno di caccia per sollecitarne il rientro.
La biblioteca, a Ca’ Nove, offriva soprattutto libri di avventure che Burri aveva sicuramente letto e che ricordava come se li avesse letti il giorno prima. Sapeva essere piacevolmente giovane, la curiosità innata predominava a tal punto da non dare nulla per scontato e ogni cosa doveva lasciare la propria traccia, anche se nascosta. Ecco perché amava ed apprezzava la pittura di Afro che proprio con il colore giocava allo stesso modo: proponendo e negando.
Sotto la sua pittura c’era tutta quella che aveva fatto prima e che avrebbe fatto dopo; era un continuo affiorare e annegare, dove l’uomo non era visibile “esisteva” e dove appariva non c’era.
Era sempre il colore che giocava un ruolo ambiguo: poteva costruire una forma e distruggerla allo stesso tempo; non erano i soggetti che nascevano da un titolo ma erano i titoli che dovevano cercarsi il soggetto.
Già nel modo di guardarti, con quel sorriso ironico, ti poneva in una posizione comoda e scomoda allo stesso tempo. Solo con l’amicizia, anzi, la grande amicizia, che nacque nel tempo, il suo sorriso divenne puro e trasparente e lo ricordo anche carico di riconoscenza e felice davanti ai risultati evidenti, sempre spogliati criticamente da tutto ciò che non era essenziale.
Ci volle un certo tempo prima di arrivare ad avere Afro al nostro studio, anche perché, nei primi anni ’60, trascorreva ancora molto tempo negli Stati Uniti, dove esponeva ed aveva splendidi rapporti di amicizia con molti artisti, in particolare con De Kooning.
Noi intanto avevamo il nostro bel da fare con Giulio Turcato, Giò Pomodoro, Giuseppe Capogrossi, ed ancora Achille Perilli, Piero Dorazio, Consagra, Giuseppe Santomaso ed altri, tutti scalpitanti, tutti desiderosi di sperimentare. Le condizioni non favorirono un incontro definitivo di lavoro fino al momento in cui non gli fu richiesto di illustrare un libro per il premio “Campiello”.
Afro, come pittore veneto, amava il colore a tal punto da mettersi spesso nella posizione di negarlo, fino ad arrivare al bianco e nero e poterlo poi recuperare, come fa chi sta annegando che, nel momento del rinvenimento, scopre la gioia della rinascita. Rimane un esempio la prima incisione dal titolo: “Presenza grafica ’71”.
Nei primi mesi del ’68, Franco Cioppi, il cugino di Eleonora, decise di dedicarsi all’insegnamento, aprendo un nuovo studio. Era convinto che, andandosene, avrei rinunciato a questa attività, sapendo oltretutto che, dopo due anni di cantiere, finalmente stavamo varando la nuova imbarcazione.
Franco pensava che la mia nuova barca, in quel momento, poteva essere una grande tentazione!
Sapeva di quanto ero stato, ed ero, appassionato di sport. Ero passato dallo sci al nuoto, dall’hockey su ghiaccio al canottaggio, dal tennis alla vela, dove mi cimentai fin da piccolo sulle derive e poi al Dragone, sino ad arrivare alla nostra prima imbarcazione da crociera, costruita e varata a Pesaro nel ’64, il “Davide”, in omaggio al mio primo tenero figlio e poi pronti al varo del “SIDA” (Simona la mia dolce bimba e Davide).
Franco Cioppi non aveva sbagliato di molto, perché il desiderio di mollare tutto mi passò nella mente, ma non aveva capito quanto amassimo questo lavoro; a tal punto, che rimandammo il varo della barca all’anno successivo.
Eleonora, da quel momento, partecipò alla vita dello studio, totalmente, con tutta la passione e sensibilità che aveva già trasferito da tempo ma che, da persona intelligente, lo aveva fatto sempre dietro le quinte, nei momenti più difficili, non facendo pesare il suo intervento.
E vennero i bambini, Davide e Simona
Una felicità nella felicità. Eleonora li cresceva meravigliosamente, non rallentando per un solo istante la tensione e la curiosità del nostro vivere insieme, 24 ore al giorno, scoprendo capacità ed affinità ed organizzando la nostra vita con decisioni istantanee, estemporanee, naturali per entrambi.
Nemmeno per un istante ci pentimmo della decisione presa e, in verità, da quel momento in poi, tutto divenne fluido, senza tensioni; la casa si trasformò in stamperia, la stamperia in casa, fino all’insediamento all’Ara Coeli, dove “casa e bottega” divennero un solo nucleo vertiginoso.
Ritornando ad Afro, la “Presenza grafica ’71” iniziò nel 1968, un progetto molto complesso, quasi per mettere alla prova, noi e lui.
Uscirono, fin dall’inizio, prove esaltanti per la tecnica, la composizione ed il colore ma, appena la stampa si presentava dal torchio, Afro interveniva prima sulle lastre e successivamente sul colore. Semplificava sempre più, ed eliminava valori coloristici e cromatici che sembravano indispensabili.
Con la prova successiva ci rendevamo conto di quanto avesse ragione. L’opera assumeva sempre più indipendenza, l’immagine grafica sembrava volesse nascere con nuove radici.
Né usci un’incisione così autonoma da sorprendere tutti.
In qualche modo fu come un presagio, poiché, per chi conosceva Afro come pittore per la sua gestualità, per il tipico senso del colore, l’opera poteva sembrare un’immagine statica, poco febbricitante.
Stranamente qualcuno incominciò ad intravedere una nuova luce Palladiana; sia i neri che il fondo, di un colore intriso d’oro, creavano un equilibrio ambiguo, tra il negativo e il positivo, in una atmosfera tipica di Afro, con una spazialità diversa, propria dell’acquatinta o meglio, della nostra acquatinta. Nostra in quanto in quel momento avevamo risolto in modo nuovo il fissaggio della resina sulla lastra di metallo. Scoperta che fu tutta nostra, che aprì enormi possibilità per tutto ciò che avvenne negli anni successivi.
Chiudo gli occhi e vedo il calendario della nostra fatica in quegli anni. Date e titoli che rimangono scolpiti nella memoria: Grande grigio 1973, Controcanto 1974, Tormarancio 1974, Santarossa 1974, La chiave 1973, L’isola di Cleopatra 1974, Pozzuoli 1973, La bilancia 1974, Piccola terra 1974, Galera 1974, Scarpanto 1974, Lunario 1974, Vulcani I 1974, Vulcani II 1974, Feticcio 1974 ( p. 225), Les Fleurs du Mal, 10 poesie di Charles Baudelaire e 10 incisioni di Afro 1975.
La morte di Afro ci piombò addosso disorientandoci fortemente, perché, dopo quattro anni dal primo problema cerebrale, la sua attività grafica, fatta con noi e con l’aiuto valido di Valeria Gramiccia, amica oltre che assistente di Afro, l’aveva portato a riprendere fiducia in se stesso, al punto che fu in grado di realizzare opere di pittura, finalmente libero da impedimenti fisici, piene di gioia di vivere e fortemente architettoniche.
Giorno per giorno condivideva con noi la sorpresa di queste nascite.
Nello studio di Afro c’era un grande foglio appeso, dove erano scritti tutti quei titoli che, da tempo, Afro annotava; la lista si allungava sempre più, facilitando la ricerca del nome che si adattava meglio al soggetto. Un grande sorriso confermava che titolo e soggetto si erano finalmente incontrati.
Il tocco magico
Ho già accennato, e ne riparlerò più volte nelle pagine che seguiranno, dell’importanza e della qualità innata in Eleonora per il colore. Questa sua dote ha contribuito alla grande evoluzione di portare la grafica al valore attribuibile alla pittura e alla scultura, allontanandosi dalle forme di riproduzione, aprendo nuovi spazi creativi, nobilitando l’opera grafica, così da non considerarla più un’arte minore.
La tecnica da cui siamo partiti, che all’epoca era all’avanguardia, aveva dei limiti incredibili, perché castigata da riti e da regole accademiche ripetitive; si muoveva con mezzi e strumenti che non davano libertà alla mente ed al gesto. Il termine usato era: “non si può fare”, anche perché tutto era assolutamente “empirico”.
I prodotti usati per l’incisione, i metodi di utilizzo, le applicazioni, erano gli stessi da sempre, perché la tecnica era vista come un’eredità da tramandare, dimenticando l’evoluzione che la pittura, la scultura e l’architettura avevano avuto in tanti secoli.
I sogni dai quali eravamo partiti, probabilmente, ci hanno dato la possibilità di volare alto, anche aiutati da molte favorevoli circostanze che, sommate al grande entusiasmo, ci hanno permesso una completa libertà ed autonomia.
La prima cosa fu l’esperienza fatta nell’industria di Milano, che mi aveva fatto conoscere prodotti e metodi, sempre diretti, ma con risultati e garanzie certi, acquistabili e utilizzabili facilmente in tutto il mondo, senza l’obbligo di “riti stregonici”per miscelare componenti vecchi e superati. Questi prodotti empirici con la loro precarietà, rendevano incerto fino all’ultimo il risultato, limitando la creatività, intimorendo anche gli addetti con percorsi inutilmente laboriosi.
La nostra regola era: “Non si deve perdere un solo segno che l’artista abbia voluto tracciare…”. La sorpresa tecnica era possibile solo all’inizio di una ricerca; nel momento in cui veniva utilizzata, i limiti potevano essere solo creativi, mai tecnici.
La messa a punto dell’acquatinta, con il nuovo sistema di ancoraggio, diede all’artista la possibilità di affrontare lastre di rame di dimensioni sempre più grandi, entrando così in un nuovo mondo dove la grafica non era mai arrivata.
La possibilità, poi, di poter intervenire più volte sulle stesse lastre, sovrapponendo resine successive di grana diversa, ha permesso di portare la profondità dell’incisione oltre i limiti tradizionali, con contrasti utili ad ampliare la gamma delle tonalità di grigio, allargando lo spettro utile ad Eleonora per utilizzare al meglio la sua capacità coloristica a beneficio dell’artista.
La grande libertà
Per la grafica non esisteva in quegli anni un mercato vero e proprio. Gli artisti che oggi troviamo in primo piano godevano l’interesse di pochi esperti e i lavori e gli artisti che noi presentavamo erano troppo avanzati, per darci la possibilità di avere una tranquillità economica.
L’attività poté sopravvivere perché avevo ereditato da mio padre una parte dell’industria tipografica di famiglia, che garantiva la possibilità di sostenermi e di investire nel mondo dell’arte grafica, nostra grande passione.
Devo questa mia libertà alla grande capacità imprenditoriale di mio zio Adelio, che pure a suo tempo avevo contestato. Negli anni, lui aveva sviluppato e rinnovato l’attività della nostra società, successivamente con l’aiuto di mio cugino Sergio, che fu per me come un fratello, e con il quale ho vissuto in collegio per vari anni. Fra noi ci fu sempre una totale comprensione oltre a un grande affetto.
Affetto che avevo anche per Luciano, fratello minore di Sergio, il quale subito dopo la laurea in economia, entrò in azienda e, fino al 17 Febbraio 2002, fu l’ago che rese possibili equilibri assai difficili e precari. Con la sua onestà e discrezione riuscì sempre a porre al nostro vaglio i problemi, anche i più difficili, che noi accettavamo sempre perché prima li aveva sviscerati e resi trasparenti, tenendo per sé tutto il loro peso. Al punto che il suo cuore, delicato, finì per distruggersi.
Ci ha lasciato, giovanissimo, improvvisamente, in un dolore immenso ed un vuoto incolmabile… caro Luciano.
Da collezionista a gallerista
L’attività commerciale fino al 1973 era totalmente affidata alla Galleria Marlborough di Roma che aveva altre sedi a Londra, New York, e Tokyo. L’unica che si occupava realmente di opere grafiche era Londra con una galleria specifica nel settore, diretta da Barbara Lloyd.
I risultati in Italia erano limitati anche perché il mercato non era certo spinto da noi in quanto ci sentivamo più collezionisti gelosi delle nostre opere che commercianti. Non ci rendevamo conto del perché eravamo più conosciuti all’estero che in Italia. La risposta era semplice: in Italia mancava una vera presenza commerciale.
Nel 1974 la scultrice americana Beverly Pepper2 mi presentò un suo caro amico Daniel Berger chiamato da noi Danny. Questi era appena uscito da un tormentato periodo concluso con il suo distacco dal Museo Metropolitan di New York, scegliendo Roma come città franca.
Per reazione aveva aperto un ridottissimo vivaio vicino a Porta Portese.
Danny si divertiva ad osservare la vita artistica romana col suo sguardo in tralice dietro i suoi occhiali e le sopracciglia che facevano da filtro. Distaccato, ma pronto a cogliere ogni occasione che lo riportasse nel mondo dell’arte che faceva finta di sdegnare ma che da raffinato professionista valutava.
Dal suo osservatorio venne a sapere che Colnaghi, società internazionale di aste, aveva rinunciato ad aprire, a restauro terminato, una sua nuova sede a Roma, proprio a due passi da casa nostra. Questo provocò un immediato nostro interesse e dopo aver visto il palazzo e lo spazio della galleria, divenne una necessità. Il progetto fu possibile anche perché Danny era molto felice di riprendere il suo primo lavoro e, con la sua esperienza, dirigere la nostra galleria romana.
Aprimmo, alcuni mesi dopo, la Galleria “2RC Editrice”.
Fummo grati a Beverly perché, ancora una volta, ci aveva dato un altro input straordinario. La prima volta aveva prestato un suo piccolo torchio a Franco Cioppi per fare alcune sperimentazioni in attesa del nuovo che stavamo costruendo. Per Franco fu un grosso aiuto e su quella piccola macchina fece i primi esperimenti con Beverly in una serie di acqueforti che in seguito realizzammo per la Marlborough.
Negli anni a seguire lavorammo con Beverly utilizzando strumenti e materiali che una donna difficilmente utilizza. In questo la scultrice americana non aveva pari. Aveva un solo complesso: che il suo lavoro non fosse forte come quello che poteva fare uno uomo. Moglie, madre, magnifica cuoca, tutte doti che le appartenevano come donna, ma che non sminuivano la forza del suo lavoro. Se questo aveva un difetto era di non aver una sua femminilità.
La galleria inaugurò con una mostra di Burri e poi fu un susseguirsi di bellissime altre mostre che andavano al passo della Stamperia, alternando originali e disegni accostabili o vicini al mondo della grafica.
Danny ebbe la capacità di tenere la galleria ad un livello altissimo ed esclusivo, non permise e non ebbe mai contatti di cui pentirsi. La qualità della grafica che circolava in Italia in quel momento era discutibile, non permetteva alcun errore. Per questo e per poter ampliare il mercato, fu necessario aprire la seconda galleria a Milano.
Lo spazio non poteva essere più bello, in pieno centro. Sapevo che Milano era molto attenta, ma le mostre che presentammo erano inattaccabili. Pur con difficoltà i Milanesi accettarono, all’inizio con circospezione, l’editore romano, che ero io; quando però seppero da critici come Ballo, nostro Professore di storia dell’arte e caro amico, che in effetti ero più milanese di loro, a quel punto fummo inseriti nel loro contesto.
Ci fu l’interesse di un gruppo commerciale, che usciva da una esperienza editoriale molto determinata a fare un forte marketing sulla grafica da noi prodotta, creando una organizzazione dal nome “Grafica Oggi”.
La cosa funzionò molto bene perché investimmo molte risorse nel far conoscere e imporre una forte presenza; ma al momento del massimo sforzo ci fu una recessione, che bloccò il mercato italiano ed europeo per un paio di anni.
Il gruppo, forse troppo velleitario nel promettere, insistette, senza pensare quanto lungo poteva essere il periodo negativo. Fummo costretti a bruciare un sacco di risorse per rimanere al livello che io avevo imposto. Fino a che l’iniziativa si spense, lasciando a me solo la facoltà di continuare.
La soluzione fu d’eliminare le velleità e, con modestia, attivare quanto sapevamo fare: esporre semplicemente quanto si produceva.
Mara sorella di Eleonora aveva seguito, se pur da lontano, l’attività milanese. Non aveva mai toccato il mondo dell’Arte, se non per osmosi dalla sorella. Entrò nella galleria non avendo preconcetti ne presunzioni, ma una assoluta dose di simpatia e semplicità, che le permettevano anche piccoli errori. Era così forte il trasporto e l’estrema fiducia che riusciva a infondere da supplire ad una perfetta conoscenza che spesso le veniva richiesta.
All’inizio degli anni ’80 ci fu un interesse improvviso per l’Arte che, partendo dagli Stati Uniti, arrivò in Europa ed interessò fortemente, per la prima volta, anche il Giappone.
La grafica incominciò ad essere richiesta e suscitò attenzione specie fra i giovani. Le grandi dimensioni delle opere da noi decise e prodotte diventarono la vera opportunità. Si creò un nuovo mercato così evidente da convincere altri stampatori ed editori a produrre grandi stampe.
La nostra fu una vera provocazione.
Molte stamperie, nate o rilanciate negli anni ’80 sulla spinta di una tradizione che lasciava spazi di interpretazione assai vasti, si sono imposte sul mercato della grafica con prepotenza, proponendo stampe dette “d’arte” che mascheravano l’incapacità tecnica con un mix indefinito di mezze tecniche sovrapposte: mezza litografia (spesso offset)1, mezza incisione, mezza acquatinta, creando dei veri “ibridi”.
Anche se in questo periodo ci furono reali vantaggi economici per noi e per tutto il settore dell’arte, mai avuti in precedenza, la nascita di queste nuove entità hanno confuso il mercato a tale punto che per chiarirlo, in qualche modo, ci sono voluti quindici anni… e molto è ancora da fare.
Il primo Artista Americano
Mentre si sperimentava con Afro, Carla Panicali organizzò nella sua galleria Marlboruogh di Roma una bellissima mostra del pittore americano espressionista astratto Adolph Gottlieb. In quell’occasione Carla fu determinante perché fece vedere all’artista le incisioni di Fontana, le prime incisioni di Burri, prodotte da noi, e le prove ancora fresche di giornata di Turcato. Queste ultime, probabilmente, per un pittore come Gottlieb, furono talmente importanti che sollecitò un incontro con noi per conoscerci e trovare anche il tempo, pur breve, per lavorare insieme.
Era la prima volta che affrontavamo una sfida senza aver sondato il terreno. Oggi posso dire che fu una splendida esperienza umana, ma non bastò a realizzare quanto l’Artista meritava, anche se ne uscirono due bellissime incisioni. Probabilmente con una maggiore maturità tecnica, e in una più grande dimensione, le opere avrebbero goduto di un più ampio respiro.
Ritornando alle incisioni di Giulio Turcato: cosa aveva intravisto Gottlieb di così interessante?
Certamente con Giulio Turcato non ci annoiammo mai. Era un artista imprevedibile, pieno di intuizioni, di curiosità, anticonvenzionale per istinto; la sua pittura rappresentava il personaggio ed il proprio modo di vivere che poteva sembrare strambo e stravagante. C’era sempre poesia nelle sue opere.
In pochi artisti ho sentito, mentre lavoravo, una sorta di pazzia creativa che si diffondeva senza dare spiegazioni, ma ansiosa di manifestarsi in un sogno.
Gottlieb aveva visto e sentito tutto questo. Aveva captato, guardando quelle incisioni, un colore curiosamente intrigante, quasi vellutato, sfumature impercettibili fino a dilagare e diventare fondi tesi e vibranti da cui apparivano note secche, monete appena coniate, ancora ignote, sospese nello spazio come da una bacchetta magica sempre in movimento. Come impronte, come sassolini, per condurti, quasi per mano, attraverso spazi così poco terrestri da sembrare su altri pianeti.
Unesco
Fu in quel periodo che l’Unesco mi coinvolse in un progetto che prevedeva la realizzazione di una cartella di incisioni con una decina di Artisti internazionali: Burri, Bill, Calder, Sonja Delaunay, Matta, Miró, Nevelson, Pasmore, Sugay, Vasarely, Wotruba.
Queste proposte, fatte agli artisti, solitamente trovano adesione, ma la realizzazione avviene in tempi lunghissimi e, poiché si tratta di donazione, finiscono per essere dei mezzi impegni. Realizzazioni che, pur oneste, possono risentire di una certa povertà di applicazione e risultato.
Non fu il nostro caso perché dal momento che ci eravamo prestati generosamente al progetto, l’occasione non andava sprecata ma anzi sfruttata con la massima attenzione e impegno. Occorreva dimostrare, più che mai agli artisti, quanto potevamo essere utili per una ricerca fondata sull’innovazione e non solo su un gesto grafico.
Non fu difficile, dopo la prima esperienza di lavoro con noi, convincerli a realizzare, per la 2RC, una serie dal titolo “Presenze grafiche”. Accettarono con entusiasmo perché la dimensione 95 x 95 cm., apriva nuovi orizzonti creativi. Fu per quell’epoca un progetto assolutamente intrigante.
Iniziammo con Burri, che in quel momento stava realizzando con noi la seconda cartella dei bianchi e neri ed era un periodo molto importante poiché l’esperienza grafica iniziata nel ’67/’68 con la cartella “Bianchi e neri”, era totalmente autonoma dalla pittura.
Questa esperienza portò l’Artista a semplificare la sua opera pittorica, arrivando ad un tale rigore che per molti sembrò eccessivo.
Certamente non avevano letto con attenzione le sue opere dei periodi precedenti dove la materia per Burri sembrava una necessità e quasi un’ossessione. Ma è anche vero che poco si è parlato delle dimensioni delle sue opere che variavano da pochi centimetri a diversi metri: Sostanzialmente, una piccolissima immagine poteva essere dilatata quanto la grande poteva rimpicciolire, senza soffrirne in nessun caso. Così, dopo questa riflessione, ci rendemmo conto che la materia poteva essere trascurabile perché era la composizione, innanzi tutto, che predominava.
Una nuova esperienza: l’incontro con Max Bill
Max Bill, architetto, designer e pittore svizzero tra i più versatili della Bauhaus, si presentò con un progetto definito, pensato in assoluto per la serigrafia1, ma, scontrandosi con il nero di Chillida, ben esposto nella stamperia, ebbe i primi dubbi. Prese tempo, girò alcuni giorni per l’Urbe e ritornò allo studio curioso di fare un diverso approccio, ponendo due giuste richieste: il peso e l’equilibrio dei colori.
La difficoltà maggiore, pensando all’incisione tradizionale, era di mantenere il valore dei colori col giusto equilibrio, stampandoli in successione uno dopo l’altro, utilizzando dalle sei alle otto lastre. Questo processo avrebbe deteriorato, anche se pochissimo, la superficie della carta e di conseguenza l’ultimo colore, in qualche modo, avrebbe predominato, facendo variare l’equilibrio di quelli precedentemente stampati. Inoltre, per Max Bill, l’accostamento dei vari colori doveva essere di una perfezione assoluta, senza alcuna tolleranza, cosa che i metodi tradizionali d’incisione non potevano garantire.
Avevamo più volte abbinato colori diversi su una sola lastra, quando esistevano spazi sufficienti tra un colore e l’altro, ma questo non era il caso.
La soluzione fu di pensare ad un puzzle; e con lo stesso principio, prima si inchiostravano le lastre per ogni colore separatamente, poi si incastonavano in una lastra madre, che le accoglieva e, allo stesso tempo, le bloccava definitivamente durante la stampa.
Il risultato? Fu una incisione pura, equilibrata per la sua precisione.
Non fu difficile convincerlo a realizzare una secondo soggetto, per la serie “Presenze grafiche”, che pubblicammo nel 1971 e che fu apprezzato per la freschezza e il grande rigore.
Vasarely
Per la tipica pittura di Max Bill, e come avvenne in seguito per Vasarely, la nostra tecnica poteva contribuire per la qualità, ma non era certo indispensabile per i due Artisti.
La tecnica serigrafica, si adattava magnificamente senza alcun problema, e noi stessi la sperimentammo proprio con Vasarely, nell’opera progettata per l’Unesco che appunto realizzammo in serigrafia con azzardi mai utilizzati da alcuna stamperia.
Vasarely, che nasceva dall’ambiente Bauhaus, poi a Parigi si inserì nell’Astrazione e di seguito divenne protagonista dell’Arte Cinetica; aveva sempre avuto un grande interesse per le tecniche e, incuriosito, volle sperimentare l’acquatinta-acquaforte con una grande immagine per la serie “Presenze grafiche”). Ciò ci permise di frequentare il suo studio ad Annette sur Marne.
Oltre alla piacevolezza del luogo, era per noi una nuova atmosfera, che si viveva all’interno, come fosse un centro universitario di ricerca. C’erano un gran numero di giovani assistenti, tutti coordinati a bacchetta da Vasarely, come elementi di una sua orchestra “pittorica”.
Osservando poi le opere terminate, pronte per essere esposte, ci rendemmo conto del perché di tanta organizzazione, le chiamerei: “composizioni intellettuali organizzate”.
Le dimensioni non ponevano differenze di tecnica o qualità. Infatti, se poste alle giuste distanze, vicino le piccole e lontane le grandi, l’impatto era impressionantemente identico.
Il rigore, la precisione, l’ordine in particolare, rivelava un pensiero e una poesia che, pur leggendo attraverso un codice matematico, riusciva a sopravvivere, anzi si fortificava al punto da diventare enigmatica e intrigante.
Parigi
Parigi, così effervescente, la vivemmo con estremo piacere per alcuni anni, stabilendoci ogni volta nelle vicinanze degli artisti con i quali si lavorava: Vasarely, Sonia Delaunay, Man Ray, Pierre Soulages, Alexander Calder. Fu anche un pretesto per avere incontri con artisti, che pur non vivendo a Parigi, la frequentavano per loro mostre o per vederne di interessanti, come facevano Sam Francis, Hans Richter, Ben Nicholson, Graham Sutherland, Willy De Kooning, Matta, Max Ernst e molti altri.
Passavamo da grandi alberghi a caratteristiche locande precedentemente filtrate e consigliate dagli artisti con i quali lavoravamo in quel momento.
Ci eravamo installati, ed è il caso di dirlo, con tutto il materiale sufficiente per una prima fase di lavoro, in un albergo delizioso per due giovani, l’Hotel Esmeralda in rue St. Julien le Pauvre di fronte a Notre Dame, un rifugio intimo e bohémien.
L’immobile non era altro che una torre medioevale dove qua e là si erano inserite nel tempo, e con caratteri diversi, le poche stanze che lo componevano. Il profumo dalla cucina che, per fortuna, preparava solo la prima colazione, saliva come da un camino attraverso le stanze e ci faceva aprire gli occhi piacevolmente in quella inebriante atmosfera. Da quella stanza ci si allontanava con difficoltà perché era un’alcova intima, anche se difficile da raggiungere; infatti vi si arrivava con una rampa di scale terribilmente ripida ed interminabile.
Ognuna di queste esperienze rimane ancora nel nostro cuore e ci inteneriamo al solo ricordo.
Pur molto giovani, una volta superata la loro iniziale curiosità, davamo agli artisti molta tranquillità e sicurezza, e si domandavano che cosa ci spingeva ad osare tanto.
Noi concedevamo nel loro lavoro ogni libertà, senza limiti di dimensione, di numero di colori e non avevano alcun bisogno di essere indottrinati. Facevamo in modo che la tecnica fosse un fatto secondario, che arrivava dopo e non prima della poesia.
Nel momento in cui amavamo un artista e la sua opera, prima di contattarlo, ci preparavamo e lavoravamo per mesi o per anni, studiando la complessità dei soggetti, le abitudini, il modo di dipingere, le ricerche da lui effettuate e, in particolare, in quale modo avvicinava il mondo esterno, anche con il suo temperamento.
Quando si lavora con un artista, nello stesso spazio, per ore e giorni interi, non è secondario conoscerne carattere e abitudini per evitare momenti di tensione che necessariamente si accumulano durante il lavoro.
Man Ray
Il suggerimento dell’ Hotel Esmeralda ci fu dato da Man Ray, pittore fotografo americano, che, già al primo incontro, capì quanto eravamo innamorati e ci vide subito a nostro agio nel suo fantasioso e anticonvenzionale studio-casa. Luogo assolutamente fuori dai canoni pensabili.
In quella prima giornata cercammo di stupirci a vicenda con fatti e battute che ci appartenevano da vicino. Fu una cosa spontanea, come può avvenire con amici di lunga data; sembrava quasi un gioco.
Man Ray amava sorprenderti, il suo sguardo, da vero osservatore, captava ogni nostro gesto e stabiliva, con pochi flash, un percorso da regista esperto, mettendoci alla prova con arguzia, avendo modo di valutare e stabilire quanto del suo tempo dedicarti.
Durante una delle nostre divertenti conversazioni, in compagnia di Eleonora e Juliet moglie e modella delle sue più belle fotografie, mi ero seduto, per caso, di fronte a lui.
Ad un certo momento ebbi la sensazione che qualcosa mi si muovesse intorno, provocandomi, quasi, un fastidio.
La conversazione era così interessante da non permettermi di approfondire cos’era in realtà.
La curiosità, che è sempre stata il mio tallone d’Achille, ad un certo punto prevalse e mi interruppi per accertare il motivo di questa mia sensazione.
Alle mie spalle, da un piccolo foglio di carta fermato alla parete con due puntine, usciva un pelo lunghissimo che, stranamente, puntava nella direzione del mio orecchio. Era come se mi toccasse: dunque era quello il fastidio; mi spostai per evitarlo. Solo allora mi accorsi che il pelo era stato disegnato, con cura e precisione, da Man Ray per valutare le reazioni di chi si sedeva in quella posizione.
Mi meritai 10 e lode.
Probabilmente entrammo, da subito, nel suo focus. Stabilimmo incontri assolutamente originali e frequenti che portarono a una prima fase di lavoro in cui si impegnò in prima persona Eleonora. Che si meritò la dedica sulla prima stampa: “Bravo, Eleonora, pour les hombres 28.11.72”.
Riuscimmo anche a realizzare una grande incisione-serigrafia dal titolo “Decantatore ’72” (p. 205 ) (Presenze grafiche) con difficoltà. Era impensabile per Man Ray venire a Roma.
Noi non avevamo ancora uno “studio ambulante” per poter fare un’immagine così grande. Fummo costretti a continui viaggi tra Roma e Parigi, risolvendo tutte le difficoltà.
Fu una grande sorpresa constatare che un grande artista del suo livello avesse, in quel momento, un così esiguo mercato. Fui felice di essere tra le persone che lo apprezzavano, dedicandogli il nostro tempo con gioia, speranzosi di contribuire a diffondere la sua immagine nel mondo della grafica.
Inaspettatamente, intorno al geniale artista, apparvero nuove presenze che tolsero quella semplice naturalezza che rendeva disinteressata la sua minima partecipazione al mercato. Abili mercanti intravidero la possibilità di replicare in multiplo qualche oggetto, creato con le sue mani, anni addietro.
Nelle varie visite che facevamo, queste repliche diventavano sempre più numerose, togliendo, a mio parere, quell’aria sognante di cui erano pieni gli originali, al di fuori della loro sconcertante semplicità.
È sicuramente stata un’operazione utile, non fosse altro perché permise alla geniale coppia di vivere gli ultimi anni della loro vita in un agio sognato, finalmente raggiunto. La cosa più importante fu la soddisfazione che, alla fine, il suo valore era stato riconosciuto in termini concreti.
Sonia Delaunay
Sonia Delaunay ci ricevette la prima volta nella sua abitazione. La sua presenza umana superava di gran lunga la sua maestosa presenza fisica. Si era talmente integrata con la poesia di Robert Delaunay, suo marito, che, dopo la sua scomparsa, si era assunta il ruolo di entrambi, continuando con amore e sorprendente personalità l’arte pittorica di Robert.
Ci mostrò molte litografie che aveva realizzato nel tempo, ma ci rendemmo conto che mancavano di intensità e di sostanza pittorica. Da lì partì la nostra ricerca, anche se eravamo limitati dal fatto che Sonia voleva realizzare una litografia1 perché ne conosceva la tecnica e non era pensabile, anche per l’età dell’Artista, proporre altro.
Arrivammo alla soluzione utilizzando dei colori impastati da noi, molto coprenti e solidi. Dopo ogni battuta veniva depositato, per caduta, sopra la superficie oleosa del colore, il pigmento in polvere oppure la terra dal quale era nato il colore. Per assorbimento, veniva catturato e amalgamato.
Ad essiccazione avvenuta, con un pennello leggerissimo, si spazzolava la polvere superflua, lasciando, come risultato, un colore vellutato e consistente.
Quando Sonia Delaunay vide la prima prova non ebbe dubbi a firmarla “bon à tirer”. L’accettò ancora prima di averla nelle proprie mani, guardandola dall’alto della balconata che si affacciava nel suo studio, dalla quale cercava di scendere raramente, per la sua ormai avanzata immobilità.
Quella volta pretese di scendere immediatamente.
Devo ancora soffermarmi sull’entusiasmo giovanile di questa generazione di Artisti che, nel caso di Sonia Delaunay, fu ancora più gratificante perché oltre all’entusiasmo generoso, l’analisi dell’opera fu fatta con una tale modestia che ci sorprese.
L’immagine era nata con dei valori di purezza per lei nuovi e sorprendenti, in quella tecnica, autonomi dalle sue opere pittoriche. La gratitudine e la gioia sprizzavano da quegli occhi intelligenti e sinceri, rimasti così giovani.
Rientrammo soddisfatti quella sera all’Hotel Esmeralda; uscimmo solo due giorni dopo…
Come dinosauri! Alexander Calder
Il giorno che decidemmo di andare a trovare Alexander Calder a Sachè, era una giornata ventosa. Partendo in macchina da Parigi il paesaggio era così terso e profondo che spesso ci fermavamo per cogliere, fino in fondo, il valore cromatico autunnale.
Verdi chiari, ocre, verdi scuri, marroni bruciati, rossi intensi, con gamme indefinibili e variazioni continue.
Giunti a Saché trovammo facilmente le indicazioni per raggiungere la casa di Calder, aiutati amichevolmente dai contadini che lavoravano nei campi. Erano felici di aiutarci a trovare il loro protetto vecchio artista americano.
Improvvisamente, poco prima di arrivare al culmine dell’ultima salita, ci rendemmo conto che gli alberi presi dal vento si muovevano ritmicamente all’arrivo delle refole. In mezzo a loro, s’intravedevano forme che si muovevano in modo diverso, come enormi onde di mare con il vento che le sovrastava per velocità, senza esserne minimamente scosse. Pensammo a degli animali, ma erano troppo grandi. In quella luce così surreale, potevano essere solo degli immaginari dinosauri.
La realtà non era così lontana perché appena fummo al colmo della collina si presentarono una serie di immense forme. Erano i famosi “Mobile” di Calder che sembravano straordinariamente piantati nel terreno, ma in movimento, come sa essere in movimento il “discobolo” di Lisippo.
La spinta del vento era minimamente avvertita, le opere si muovevano anche per la geniale fantasia di Calder.
Portavamo ad Alexander i saluti di Burri, che lui apprezzava molto come pittore, e di Giovanni Carandente, che ci aveva aiutato da tempo a prendere contatto con il suo grande amico Alexander.
Ci mostrò subito uno splendido “Sacco” di Burri che aveva nella sua camera da letto, frutto di uno scambio avuto anni prima con un suo “Mobile”. Baratto di cui erano fieri entrambi.
Calder si muoveva tra sculture semi finite ed elementi di altre, come fossero delle grandi madri in attesa; da lì ci portò dall’altra parte della collina, in un vecchio casolare, dove creava dei piccolissimi prototipi. Erano micro sculture di cui aveva goduto la nascita e ora la presenza. Esse mantenevano la memoria delle sue grandi sculture sparse nel mondo intero. In quella forma, pur ridottissima, rimanevano anche come documento della fase progettuale, assumendo agli occhi dell’Artista, una valenza affettiva quasi infantile.
Quando entrava in quello spazio ne gioiva in modo evidente e ritardava volontariamente l’allontanarsi.
Per l’età che aveva, ed il poco tempo che poteva dedicarci, dovetti rendere le cose assolutamente semplici. Lo feci lavorare come se davanti a sè avesse una guache, di cui era maestro.
Affrontò la lastra di rame con una sostanza che preparammo con i colori utilizzati abitualmente nella sua tavolozza. Trattò la lastra, che avevamo preparato con una vernice impermeabile con una semplicità e una disinvoltura sorprendenti. Libero, lasciando a noi tutta la responsabilità, come può fare un bimbo.
Fu un procedere misto tra alchimia e maestria innata perché, pur conoscendo da parte nostra i percorsi, l’estro, l’esperienza e l’azzardo di questo formidabile artista americano riuscì a stupirci.
L’opera non mancò certo di spontaneità e freschezza. L’incisione in acquaforte con grandi stesure in acquatinta rese architettonico ed equilibrato lo spazio da lui pensato: solo una sorta di griglia, aguzza, tagliente che non si dava pace, dando l’impressione di muoversi meravigliata dell’assoluta leggerezza delle forme sovrastanti.
I nostri figli
Gli unici a soffrire per queste permanenze in giro per il mondo erano Davide e Simona. I nostri due bambini non capivano le ragioni delle nostre assenze e lo notavamo dal loro comportamento, lo leggevamo nei loro scritti e, ancor più, nei loro disegni.
Pur affettuosamente seguiti dalla nonna materna Amelia, la meravigliosa e dolce mamma di Eleonora, erano felici solo quando lavoravamo a Roma, ed estremamente curiosi di ciò che succedeva, sia nella casa che nello studio.
Vedevano affacciarsi personaggi anticonvenzionali, soprattutto stranieri, che si divertivano a parlare con loro perché sin da piccoli avevano appreso l’inglese e il francese. Erano molto disinvolti e sensibili alle attenzioni che gli venivano riservate.
All’inizio dell’estate del ’71 i nostri figli, terminata la scuola, vennero con noi in navigazione per andare in Spagna dove rivedemmo Chillida e Miró e incontrammo Tapies.
Eduardo Chillida
Eduardo Chillida fu il primo Artista Spagnolo con il quale lavorammo. Venne ospite a casa nostra all’Ara Coeli con sua moglie Pilar. Furono molto sorpresi della nostra accoglienza e si inserirono facilmente nella nostra vita quotidiana.
Per loro, questo fu importante perché erano abituati ad essere attorniati, ogni giorno, da ben otto figli; in particolare Pilar ne sentiva molto la mancanza, unica ragione che aveva ritardato la loro venuta a Roma.
La ristrutturazione della Stamperia all’Ara Coeli non era ancora terminata, per cui lavorammo nella vecchia Stamperia a Madonna di Fatima.
Per Chillida non fu difficile entrare in sintonia, avendo già una buona esperienza di incisione e, come scultore “puro”, non pensò certamente al colore, ma al valore unico del rapporto con il foglio di carta bianco. La dimensione della luna, la dimensione di una pianta con lo spazio che riesce a coinvolgere, una mano aperta… una mano chiusa con lo spazio che riesce a raccogliere.
“Se metti una tua scultura vicino ad una pianta… perdi sempre!”.
“Forse un giorno proverò a pensare una mia scultura nel mare, se ci riuscirò, sarà una vittoria rispetto al mare. Temporalmente breve rispetto al tempo”.
Accarezzò la lastra di rame, la tastò, la scaldò con le sue mani, non osava scalfirla.
Con sensibili tocchi fece scendere sul rame la colofonia1, quasi in modo omogeneo e non, tutto in un’intimità isolata, tutta sua, guai ad intervenire. Poi, con tocchi Segoviani, fece vibrare la lastra per accumulare e separare la resina dove lui desiderava, creando una materia di sottofondo quasi musicale.
Il gesto fu ripetuto più volte e per varie morsure successive, fino a che la materia, che era evidente, piano piano si annebbiò al punto da lasciare solo il suono.
Poi, per ultimo, la lastra, preparata alla cera molle1 fu ripresa da Chillida lavorando sul bianco con della sabbia sottilissima, che sensibilmente, con i polpastrelli delle mani, fece aderire alla lastra fino ad intaccarne la vernice impermeabile all’acido, con sottilissimi e quasi invisibili graffi. L’acido poi, in pochi minuti, mordendo il rame, faceva apparire un leggerissimo graffiato.
Questo era l’ultimo atto d’amore, che completava il tutto.
Non c’è stato Artista o persona competente che non si sia reso conto del mistero dell’immaterialità delle incisioni di Chillida e della sottile vibrazione della composizione equilibrata con il bianco della carta, toccato appena da segni impercettibili, quasi da non riconoscerne il valore. Cos’è il positivo? Cosa il negativo? Il bianco? Oppure il nero?… Ecco… è solo quella impercettibile vibrazione del nero che ti dà la risposta.
Estrema libertà
Il grande fascino di questo lavoro mi allontanò sempre di più dagli sport che avevo praticato in passato, anche perché, per noi, Roma rappresentava il mare.
Navigare era quanto avevamo desiderato di più al mondo. Navigare veramente! Perché quello che avevamo fatto, con la nostra prima imbarcazione il DAVIDE, era solo un pretesto per ascoltare il mare e imparare a conoscerlo, non era certo la barca per poter fare regate o viverci per lunghi periodi.
La grande svolta arrivò quando ebbi l’opportunità di partecipare, nel 1966, ad una regata inglese molto impegnativa, invitato da Peter Nicholson sul Quiver IV, un’imbarcazione straordinaria, progettata e costruita nel loro famoso cantiere, vecchio di tre secoli, in Inghilterra, a Southampton.
Quelle 100 miglia di completa esaltazione aprirono nella mia mente un nuovo orizzonte.
Forte del sostegno di Eleonora, attivai la fase progettuale con Camper & Nicholson e, subito dopo, si iniziò l’impostazione della chiglia nel cantiere del magnifico maestro d’ascia Gino D’Este, da poco trasferito da Venezia a Fiumicino. Una somma straordinaria di conoscenza e sensibilità.
D’Este era in grado di leggere il legno adatto ai vari impieghi e forme dalla pianta ancora in situ, come nelle antiche tradizioni. Allo stesso tempo sapeva trattarlo con tecniche assolutamente all’avanguardia facendo prendere al legno qualsiasi forma.
Le mie fughe al cantiere furono famose. Per tre anni all’ora di colazione e spesso di cena, sapevano dove trovarmi.
Ho visto nascere la chiglia partendo dal modello in legno del bulbo; di seguito, la gabbia toracica del SIDA, scandita dalle ordinate, che man mano prendeva forma fino a vederne totalmente il volume, e così incominciare a vivere i suoi interni, proponendo a Camper & Nicholson le possibili varianti.
Conosco ogni vite di questa mia amata, e non desidero andare oltre nei dettagli perché è come pretendere da una madre di raccontare il parto del proprio figlio.
È impossibile descrivere la qualità e quantità di cose che il SIDA ci ha fatto scoprire, e quante ancora sarà in grado di farci godere ed apprezzare. Andando ben oltre al mare, la nostra barca ci ha insegnato uno stile di vita semplice, razionale e allo stesso tempo concreto e responsabile. Un raro spazio di accoglienza che, per chi non l’ha vissuto, è poco comprensibile. Per noi è stata un generatore di energia e allo stesso tempo un osservatorio dal quale riflettere e prendere coscienza dei limiti da cui non siamo esenti.
Biennale di Venezia
Nel 1970, con il varo del SIDA, decidemmo di andare, con la nostra imbarcazione, a Venezia, partendo da Fiumicino, facendo rapidamente il periplo dell’Italia, toccando i posti più belli che solo in parte conoscevamo, perché eravamo impegnati a collaborare con l’Addetto Culturale Americano per creare nel loro padiglione alla Biennale di Venezia una stamperia operativa. Avevamo, per l’occasione, inviato da Roma materiali e macchine nostre.
Fu un’opportunità utile per entrare silenziosamente negli schemi delicati del mercato e della cultura Americana e l’occasione di presentarci all’Accademia di Venezia, in quel preciso momento, con una bella mostra di tutte le opere grafiche che avevamo prodotto fino a quell’anno, creando un cordone ombelicale tra New York e l’Italia.
Nel lungo soggiorno in quella splendida città fummo molto aiutati da Giuseppe Santomaso, “pittore Veneziano” che si era adoperato con estrema generosità per facilitarci la strada per la mostra all’Accademia. Con l’artista avevamo lavorato e prodotto da anni molte incisioni, tecnica da lui amata.
Quel lungo soggiorno a Venezia fu molto importante per noi, in quanto ci diede l’opportunità di vederlo lavorare nella sua atmosfera veneziana, aprendoci una finestra di curiosità, anche in senso visivo, perché lo studio dell’artista si affacciava sul Canal Grande, un orizzonte senza tempo, metafisico, surreale, una finestra sull’Oriente.
Essere ormeggiati a Sant’Elena al centro di una delle più belle città del mondo, con la nostra imbarcazione, ci rendeva increduli ad ogni risveglio.
Venezia è una città che nel suo falso dormire nasconde una dinamicità intellettuale che rigenera e propone nuovi orizzonti a tutti, sapendo stare anche al balcone per vederne i risultati.
Navigavamo nei meandri della città, con il nostro tender, facendo leggere a Davide e a Simona ogni dettaglio, raccontando loro parte delle cose che man mano coglievamo non più con l’occhio da turisti ma da amanti scopritori di cose anche semplici, cosa che i bambini apprezzavano di più, perché erano certi di essere in quei momenti al centro dei nostri interessi.
In mare verso la Spagna
La navigazione verso la Spagna fu un pretesto per incontrare Miró a Palma de Mallorca, dove l’artista trascorreva l’estate, e dove ci avrebbe ricevuto senza limiti di tempo. Questo ci permise di compiere tappe rilassanti, scoprendo posti ancora a quel tempo non invasi dal turismo, per la gioia nostra e dei nostri figli.
Partendo dall’Argentario, fu per me una grande emozione fare una delle prime tappe ad Arenzano dove risiedeva, durante l’estate, mio zio paterno Adelio che non immaginava mi presentassi con un’imbarcazione di quelle dimensioni, di quella stazza. Rimase impressionato per la tranquillità e la sicurezza che dimostravamo nelle manovre e nella gestione dell’imbarcazione. In verità non sapeva molto di me e della passione così profonda che avevo per il mare.
Per la prima volta, lasciando Arenzano, ebbi l’impressione di aver dato una risposta chiara a tutte le domande che si era probabilmente posto mio zio per più di 10 anni su quello che andavo cercando. La risposta era “la libertà di scegliere il mio destino”.
Lungo la costa Francese incontrammo molti amici, fino ad arrivare a Sète, dove conoscemmo Pierre Soulages e sua moglie; fu l’occasione per fissare un appuntamento definitivo a Roma per lavorare insieme all’inizio dell’autunno.
Arrivati sulla costa Brava trovammo splendidi ridossi e villaggi dove fu veramente piacevole approdare, come per esempio Puerto de la Selva. In questo villaggio ai piedi dei Pirenei incontrammo, per un caso, l’editore Umberto Allemandi con sua moglie e i suoi figli della stessa età dei nostri.
Fu una tappa piacevole anche se imprevista. Gradita in particolare ai quattro ragazzini che, per il piacere di stare insieme, ci bloccarono in quel porto per una decina di giorni.
Con Umberto avevamo vissuto i primordi dell’editoria sull’informazione dell’arte, e fu piacevole ripercorrere quei momenti e verificare che non avevamo modificato il nostro modo di essere rigorosi ed intransigenti.
A Cadakesh, dove facemmo tappa, mancammo per poche ore di incontrare Salvator Dalì che era da alcuni giorni partito per l’Italia. Lasciammo i nostri saluti e ci ripromettemmo di tornare, ciò che poi avvenne nel 1977.
Ci fermammo a Barcellona per alcuni giorni e riuscimmo a far visita ad Antoni Tàpies che ci accolse con simpatia. Si parlò di una sua probabile visita a Roma, che mai riuscimmo ad organizzare. Continuammo ad avere contatti e chissà che un giorno…
Arrivati finalmente al Club Royal di Palma de Mallorca il nostro primo desiderio fu di prendere contatto con Miró.
Miró
Al telefono rispose Pilar, la moglie di Miró, che non fu sorpresa della mia telefonata; ci invitò lo stesso giorno nella loro casa in collina, dove ci accolsero con estrema semplicità e gentilezza.
Avevamo già incontrato Miró2 altre volte a Parigi in gallerie e in luoghi pubblici, ma essere ricevuti a casa sua ci emozionò. Erano entrambi ad attenderci all’ingresso di casa dove ci accolsero e ci rendemmo subito conto della semplicità della loro casa, del modo di vestire disinvolto e casuale, sobrio e semplice.
Il fatto che venivamo dall’Italia con la nostra imbarcazione per incontrarlo, lo rendeva curioso e interessato. Volle sapere molti dettagli dei nostri spostamenti e della navigazione. Quando poi seppe che sulla nostra barca avevamo anche l’attrezzatura per lavorare e realizzare un’opera grafica, fu felice perché, a quel punto, si rese conto che quel viaggio lo avevamo intrapreso proprio per lui.
Fare litografia con Miró fu un piacere, il nostro intervento fu solo chimico.
L’immagine nasceva naturalmente e in modo progressivo, controllata da una tecnica che sfruttava tutto il sapere conosciuto della litografia con una naturalezza anche per noi sorprendente. Quel sapere gli consentiva un approccio di completa poesia quasi fanciullesca, l’immagine che man mano nasceva veniva coperta da un’ombra misteriosa e matura, colma di ricordi.
Avremmo voluto portarlo ad affrontare una lastra di rame, e ci eravamo preparati in quel senso ma, probabilmente, si era reso conto che con una litografia avrebbe, in breve tempo, risolto il suo impegno verso l’Unesco. Per questa ragione non abbiamo assolutamente insistito. Solo a lavoro ultimato abbiamo mostrato alcune grafiche che avevamo realizzato con artisti che lui amava e, forse, in quel momento, ed è solo un mio pensiero, ebbe il dubbio di aver mancato una nuova opportunità. Lo avrebbe, se non altro, portato indietro di alcuni anni, anni in cui realizzò le sue splendide incisioni.
Il giorno che decidemmo di lasciare Palma de Mallorca, volle sapere l’ora che avevamo previsto per la nostra partenza. Fui preciso quel giorno perché ero certo che avrebbe visto dalla sua casa, con la sua fervente fantasia, una sua opera che rischiava il mare.
Prima di lasciare definitivamente l’isola ci fermammo un paio di giorni a Formentor da Chillida, dove tutta la famiglia fu generosamente ospitale e non si parlò mai di lavoro ma solo di mare.
Mi cimentai a tennis con Eduardo e constatai, sulla mia pelle, che era stato da giovane un grande campione di tennis della Nazionale Spagnola.
Simona e Davide godevano di questi prolungati stop perché consentivamo loro di andare in piscina, frequentare luoghi dove c’erano altri bambini e noi, sapendo questo, non acceleravamo mai le partenze.
Il rientro dalla Spagna con il SIDA fu la prima vera esperienza con il mare oltre forza nove. Devo ammettere che fu utile per valutare le vere capacità dell’imbarcazione, anche se non avevamo dubbi.
Si era partiti da Minorca, precisamente da Port Mahon, con un bollettino spagnolo che prometteva sole e calma di vento. Invece, guardando il cielo in alta quota, la sera e all’alba prima di partire, si vedevano baffi ventosi da maestrale. Ne avevo fatto cenno al comandante della barca vicina più grossa di noi, del Professor Stefanini, famoso chirurgo romano. Secondo lui, che aveva ascoltato i bollettini spagnoli ormai da due mesi, non esistevano dubbi.
Salpò prima di noi con la nostra stessa rotta verso l’Asinara.
Ci volle poco a capire che la giornata non prometteva nulla di buono. Dopo un paio d’ore iniziò un vento teso da maestro che, a quell’ora, doveva essere levante; iniziammo a cambiar rotta, portandoci decisamente verso il nord della Corsica.
Il vento rinforzava sempre più ma il mare non era del tutto formato; a quel punto ne approfittammo per stringere maggiormente la rotta, finché ne avevamo la possibilità.
La barca procedeva veloce e sbandata.
Mangiammo molte miglia prima di mettere la prima mano di terzaroli e, da quel momento, fummo obbligati a perdere alcuni gradi perché il mare era ormai formato con onde intorno ai due metri molto fitte e cariche. Facendo i miei calcoli, ero certo di avere ancora molto margine per rendere la navigazione veloce e sicura nelle ore che sarebbero seguite.
Verso sera il vento rinforzò sui 40/50 nodi e il mare si gonfiò con onde enormi che frangevano. Poggiammo ulteriormente, tenendoci comunque con un margine sufficiente per filare al lasco nei momenti peggiori senza perdere la rotta sull’Asinara.
Una luna splendidamente luminosa ci permetteva di veder giungere in anticipo le enormi onde che crescevano sempre più; non le avevamo mai viste così grosse e imponenti.
Quando il SIDA prendeva l’onda portante, filava oltre i 12 nodi con un guizzo così naturale da rendere euforica la navigazione, al punto da dimenticare le traine con le quali avevamo pescato quando il mare era ancora disteso.
Verso le dieci del mattino si intravide la parte nord ovest della Sardegna; l’aspettavamo più tardi ma quel giorno, con quella visibilità e con quel vento, fu un’apparizione fantastica.
Con la luce tutto divenne più facile anche se il mare non tendeva a migliorare.
Più ci si avvicinava alla costa, più le onde diventavano irregolari ed era necessaria la massima attenzione per non fare strambate pericolose e subire qualche danno. Non si riusciva a stare al timone più di un’ora, tale era la tensione e la forza fisica da applicare.
Ricordo l’arrivo a Porto Torres con Eleonora al timone. Il Sida planava sulle onde, che passavano i moli per l’irruenza e la forza.
Ammainammo le vele all’interno del porto con qualche difficoltà. Lo spazio era esiguo per il gran numero di imbarcazioni che si erano riparate, comprese le navi di linea ferme da due giorni.
Ci eravamo scordati della grafica di Miró che aveva navigato con noi.
La cosa più incredibile fu che l’Artista ci chiamò la sera stessa per avere nostre notizie perché aveva sentito il vento infuriato anche a Palma e si era preoccupato per noi; e noi, finalmente tranquilli, lo rassicurammo.
L’imbarcazione di Stefanini fu costretta a poggiare su Cagliari per non avere seri problemi, probabilmente il comandante, dopo quella esperienza, perse la fiducia nei meteo spagnoli.
Giuseppe Capogrossi
Al rientro dall’estate eravamo d’accordo con Soulages che sarebbe venuto a Roma per lavorare sulla serie: “Presenze grafiche”. Allo stesso tempo ci stavamo preparando per andare, alla fine d’autunno, a Los Angeles per fare un lavoro ancor più impegnativo con Sam Francis. Da qualche mese avevamo in corso una serie di litografie con Giuseppe Capogrossi che, per la semplicità dei soggetti e la tecnica, pensavamo di risolvere in breve tempo, ma eravamo ancora lontani dal “bon à tirer”.
Per la verità, era Eleonora la più impegnata con l’Artista, un impegno continuo perché Capogrossi, che in apparenza poteva sembrare semplice e di facile realizzazione, dimostrò invece di essere un sottile ed esigente colorista.
Per rendere chiaro il significato, si riusciva ad avere l’“Ok” dell’artista solo dopo che si controllavano le differenti prove di colore alla stessa esposizione della luce naturale ed alla stessa ora del giorno, perché la diversa illuminazione del soggetto cambiava sistematicamente il modo di lettura. Le correzioni, così sottili, diventavano, senza questi accorgimenti, impossibili da realizzare.
Capogrossi mi raccontò che, alcuni anni prima, aveva uno studio che si affacciava con le sue vetrate ad est, su una palazzina dipinta con un rosso mattone intenso.
Il sole nel pomeriggio, da ovest, trasferiva la sua luce impregnata di rosso nello studio dell’Artista, mettendolo in forte crisi, al punto che dopo alcuni mesi, durante l’estate, esasperato, in assenza dei proprietari della casa di fronte, la fece dipingere tutta di bianco. La causa intrapresa dai proprietari della palazzina credo non sia mai finita.
L’artista, pur legato ad un contratto d’esclusiva con un editore svizzero, volle lavorare con noi molte volte e per anni e fu lui a liberarsi, di volta in volta, dal legame contrattuale perché ci teneva moltissimo che le sue grafiche facessero parte delle nostre edizioni. In particolare, perché sapeva di poter contare sugli ottimi risultati.
Solo la malattia e la morte non ci hanno permesso di proseguire con la ricerca ma, ancor più, con l’amicizia, che era forte e sincera.
Soulages a Roma
Arrivò finalmente a Roma, all’Ara Coeli, Pierre Soulages con sua moglie. Oltre al bagaglio personale, notai che si portava, a mano, un grosso pacco nel quale c’era sicuramente una lastra di dimensione vicina a quella delle “Presenze grafiche”, ben imballata e protetta; la cosa mi sembrò strana…
Alla sera, dopo che si erano insediati nella loro camera, affrontammo il progetto grafico. Pierre mi disse che era abituato a lavorare con uno stampatore di Parigi e, per accelerare le cose, aveva già preparato una lastra che secondo lui era compiuta e ne era contento.
Quella sera non la mostrò, e neanche successivamente, perché dopo che entrò nel nostro studio e vide le incisioni di Chillida, Burri, Nevelson ed altri, mi domandò che cosa avremmo potuto fare.
Da quel momento la previsione fu di un lunghissimo percorso tecnico che mi portò a decidere, con Eleonora, che dovevamo separarci per la prima volta, in quanto ci eravamo impegnati con Sam Francis ad andare al più presto a Los Angeles. Eleonora avrebbe anticipato la visita, organizzando nel frattempo, nello studio di Sam, l’allestimento della stamperia con il materiale che in parte avevamo spedito, non impedendole però di partire carica come un esule, ma non meno determinata.
Ci vollero tre settimane per completare il lavoro con Soulages perché, sin dall’inizio, dovevo smontare una sorta di dipendenza che lo legava allo stampatore parigino. Ad ogni suggerimento che gli facevo arrivare, sempre in modo discreto, mi rispondeva che già lo conosceva e non lo interessava più di tanto, disarmandomi ogni volta.
Arrivò il momento in cui mi parlò di una ricerca che, da qualche tempo, stava cercando di realizzare in pittura.
Andammo finalmente sul terreno che io amavo di più: avevo intravisto la tecnica ideale per Soulages. L’avevamo sperimentata per le combustioni di Burri, che cercava qualcosa di evanescente, ma fu scartata perché era piuttosto grossolana, mentre si adattò in modo stupefacente alle esigenze di Pierre.
Si trattava di dare un valore molto profondo ad un colore che in origine, e per la sua trasparenza, gli era negato ma, arricchendo la matrice di una sostanza che trattenesse al suo interno tanto inchiostro, eravamo arrivati dove lui voleva. Una fortissima intensità di colore profondamente vibrante.
Soulages lavorò sulla lastra di rame con una colla che avevamo preparato come fosse un colore, si stendeva benissimo con il pennello. Le pennellate nette, più o meno dense, rimanevano sulla lastra esattamente come fossero sulla tela.
A lavoro ultimato, attraverso dei setacci, si faceva cadere dall’alto, scuotendo, una ricca pioggia di carborundum in polvere di diversi spessori, fino a ricoprirne la superficie.
Ad asciugamento avvenuto, con spazzole di differente durezza, si toglieva la parte superflua e poi, ancora con strumenti adeguati, l’Artista grattava ed ammorbidiva le parti che avevano bisogno di maggior trasparenza e luce.
Non vidi mai la famosa lastra fatta a Parigi.
La magia di Sam Francis
Sam Francis era sicuramente un uomo pieno di magia ed anche il nostro primo incontro, in qualche modo, fu magico.
“Quei colori così luminosi e puri non possono essere che di Sam” disse Burri di fronte ad una grande tela quattro metri per otto.
Ecco… si presentò Sam Francis con il suo sguardo pungente, pieno di gioia; ci accolse nella galleria di Los Angeles, alla Cienega, dove esponeva i suoi ultimi lavori.
Era il maggio del ’68.
Ricordo un ironico accenno che Burri fece a Sam davanti ad un enorme quadro totalmente bianco con, ai due estremi angoli, alcuni piccolissimi graffi coloratissimi; disse: “potevi sforzarti un po’ di più!”.
Burri non sapeva, in quel momento, che pochi anni dopo avrebbe, anche con l’aiuto della grafica, riletto e prodotto le sue opere con una sintesi e rigore francescano. Solo poche tracce di materia o una velatura di colla sarebbero stati sufficienti a sostenere opere di alcuni metri.
Così conoscemmo Sam Francis; da quel momento fu lui a farci leggere la sua opera, con il comportamento, la personalità, i suoi sogni, la gioia di vivere. Noi, d’altra parte, ci sforzammo sempre per superare le difficoltà che nascevano dalla sua salute precaria.
Proprio la salute condizionò i vari incontri di lavoro, fissati ogni volta con entusiasmo, ma spesso rimandati.
Roma era una meta lontana dalla California, per chi come lui soffriva d’improvvise malattie, debilitanti, a tal punto che, per mesi, doveva pensare al recupero. La soluzione fu di creare una stamperia ambulante da poter trasferire nello studio dell’Artista.
Così Eleonora, appena fu tutto pronto, con tutta l’attrezzatura necessaria, partì per Los Angeles sola. Lo studio fu impiantato a Venice (California) in uno spazio che Sam aveva messo a nostra disposizione.
Eleonora in quell’occasione, dal nulla, creò uno studio efficiente, pronto in ogni momento ad accogliere l’Artista. Dopo lunghissime pause, utili per arrivare alla concentrazione, nacquero una serie di acquaforti e acquatinte splendide per immediatezza e rigore. Furono queste prime incisioni a formare la base tecnica che ci permise, in seguito, di progredire ed arrivare ogni volta a successi grafici come fossero pietre miliari.
Era stata così importante per Sam questa prima esperienza che mise come priorità la necessità, per lui, di venire a Roma, nel più breve tempo possibile.
Una settimana dopo arrivò all’Ara Coeli, dove abitavamo ed avevamo la stamperia. Fu subito affascinato dagli spazi e dall’atmosfera ma, in particolare, dalla finestra del soggiorno da cui si vedeva il Marco Aurelio nella piazza del Campidoglio.
Stava ore seduto, viaggiando con la fantasia e con i sogni in quello spazio Michelangiolesco, coinvolgendo anche noi quando arrivava all’ispirazione ed al momento giusto per iniziare il lavoro.
Ci vollero giorni prima di stabilire il giusto clima e, quando arrivò il momento, la tensione era così alta che la stamperia non bastava più per contenere i risultati dell’energia che si stava scatenando. Per questa ragione decisi di trasferirci nella galleria d’esposizione che avevamo a due passi dalla stamperia, svuotandola di tutto.
Era la cappella del palazzo. Si sentì alleggerito e fu felice di aver in qualche modo a disposizione uno studio dove nel ’600 un artista aveva affrescato l’emblema “De’ Delfini” nel soffitto.
Per grande che fosse l’atelier, dopo alcuni giorni, le lastre due metri per uno non si contavano più ed erano sparse in tutta la superficie, permettendo così a Sam di avere una visione generale del lavoro per poter ritornare sulle stesse lastre, ogni volta con il suo gesto spontaneo e vibrante.
Per la prima volta mi resi conto di cosa fosse veramente “l’energia”. Al termine del lavoro di incisione, l’impronta dello sforzo creativo aveva lasciato nel rame una vitalità straordinaria. Quando Sam si era reso conto che era riuscito con il suo lavoro a domare la materia, fu per lui un’emozione simile a quella di un maratoneta che arriva al traguardo.
Passarono giorni per riorganizzarci, fare il punto della situazione e parlare di prove di stampa. Sam doveva recuperare le sue forze.
Stavamo ore a parlare di colore e, in quel terreno, Eleonora accumulava tutti i riferimenti, anche i più sottili, per entrare nel clima così personale dell’artista e poter trasferire sulle lastre ciò che era stato generato. Si doveva ricostruire, attraverso il colore, la giusta risposta che sublimasse lo sforzo compiuto.
Una grande sua mostra retrospettiva che si inaugurava, proprio in quei giorni, a Parigi, obbligò l’Artista a lasciare lo studio prima di poter sperimentare ciò che nelle innumerevoli ore e giorni si era immaginato. Era comunque certo che in breve tempo sarebbe tornato a Roma.
Così non fu, perché Sam Francis passò da periodi di lavoro a periodi di malattia che non gli permisero di venire a Roma, né si poteva pensare di poter fare delle prove di stampa senza la sua presenza. La complessità dei soggetti richiedeva una squadra di stampatori che non potevo certo portare a New York o Los Angeles.
Si arrivò al 1982, anno in cui ritornò a Roma, nella nostra nuova casa e stamperia alle Terme di Caracalla. Appena giunto, volle vedere ogni cosa. Lo lasciammo libero di andare dove voleva, con i suoi tempi, le sue soste, le sue emozioni.
I nostri “Bobtail” lo seguivano continuamente perché avevano capito, da buoni cani, che Sam amava gli animali e, per questa ragione, non lo lasciavano mai.
Una mattina alle dieci, non vedendolo scendere dalla camera, Eleonora, preoccupata, andò a chiamarlo e le si presentò una scena deliziosa: Dado, il nostro cane, con Sam, erano sdraiati sul letto e Sam le disse: “non lo volevo svegliare”.
I colori della primavera che in quel momento esplodevano nel nostro giardino ci aiutarono a riprendere le prove con gran vigore, ma Eleonora seppe leggere molto al di là di quello che riusciva a dare la primavera.
Il titolo della serie, alla fine, per l’immensa variazione dei colori, fu: “le cinque stagioni”.
L’Artista volle cimentarsi ancora con l’incisione e progettammo una nuova avventura con l’intesa che l’avremmo conclusa a New York, nella stamperia che avevamo già dal ’79 proprio per avere quella famosa continuità. Così fu. Tre anni dopo ci mettemmo al lavoro a New York.
La preparazione, come sempre, durò giorni anche se l’ambiente di New York non concedeva troppe distrazioni: i buoni caffè di Eleonora e i pranzetti che riusciva ad organizzare creavano un relax conviviale senz’altro preparatorio ed apprezzato da Sam che amava enormemente la cucina italiana, ancor più quella di Eleonora di cui diceva: “usa i sapori come i colori, con la loro purezza”.
Era particolarmente felice in quei giorni perché era appena nato il suo ultimo figlio, Augustus. Il nome rappresentava la sua fierezza in quanto, alla sua età, si era trasformato più volte da nonno a padre.
Nel momento in cui si sentì pronto e sicuro di averci portati alla giusta tensione, Sam trasferì questa felicità sulle lastre, di getto, sapendo ogni istante dove e cosa stavamo realizzando. In quella notte completammo le quattro lastre che formavano il mosaico di colori immaginato dall’Artista e che si era trasferito nel cuore e nella mente di Eleonora.
Per praticità registrammo il duetto verbale Sam-Eleonora; questo fu indispensabile perché, con i soli appunti non avremmo mai raggiunto quelle note musicali che solo la voce riesce a dare parlando di colori.
Fu senz’altro un omaggio alla nuova vita del piccolo Augustus, che era apparsa a Sam come una rivincita contro il male a cui resisteva con la sua grande tenacia.
In particolare, l’immagine del soggetto “Senza titolo 3” rappresenta un trionfo ed una esplosione che solo certi momenti possono provocare. La figurazione evidente nel soggetto era come un nuovo testimone nella sua pittura; non era sicuramente un caso per Sam.
Galvanizzati dai risultati, fissammo un progetto di lavoro, sempre a New York, nella primavera del nuovo anno. Ancora una volta non fu possibile realizzarlo perché Sam era molto impegnato per una grande mostra retrospettiva, itinerante, organizzata da Pontus Hulten e, anche, per la nuova casa in costruzione a Point Reyes, dove intendeva trasferirsi definitivamente.
Questa decisione era dettata dalla necessità di vivere in un ambiente il meno contaminato possibile, con l’assistenza dei suoi terapisti orientali che lo seguivano da anni per aiutarlo a sopraffare il suo male, per molti incurabile, per lui una continua sfida nella quale era ancora vincitore.
Ci sentivamo spesso al telefono per fissare delle ipotetiche date che servivano, più che altro, a dimostrarci l’affetto che ci legava.
Ancora una volta mi venne in mente di riproporre la famosa stamperia ambulante. Sam non aspettava altro, anche se a Point Reyes, non avendo ancora terminata la nuova casa, non aveva, oltre lo spazio per lo studio, il modo di ospitarci. Andammo in un piccolo Motel su palafitte, consigliato da lui, nella baia del villaggio. Devo dire che fu un rifugio fantastico per noi, dove restammo per 59 giorni.
L’inizio fu bruciante perché ormai Sam non aveva più bisogno di immaginare con approssimazione i risultati e, sicuro dei suoi mezzi, andava oltre.
Da buon sognatore e interprete dei suoi sogni, gli accadeva di ritrovarsi sbalordito da una immagine che lui stesso stava creando. Così produsse un gran numero di soggetti, tutti molto diversi.
Questa prima grande fatica ci mostrò immediatamente quanto gli costava.
I terapisti ci misero diversi giorni per riportare Sam ad una situazione di normalità e ci rendemmo conto che lo splendido lavoro da lui fatto era un vero omaggio alla vita: le forme, i ritmi, la luminosità del colore, la tensione, la vibrazione, l’equilibrio e la gioia… metteva l’arte anche al di sopra della propria vita.
A questo punto cercammo di porre delle pause tra una fase e l’altra e si passava molto tempo a parlare con lui e toccare quegli argomenti di cui Sam andava fiero: la Fondazione da lui creata per la ricerca sul cancro, il gruppo di ricerca da lui finanziato per l’energia eolica, la casa editrice, il litho-shop dove si stampava in litografia, serigrafia e incisione in modo classico, i figli, le mogli, le famiglie, i suoi studi di pittura, le sue innumerevoli mostre, gli amici più cari, le gite in bicicletta, le partite di tennis… e i suoi sogni… e i nostri… che ci raccontavamo ogni giorno.
Era lui che ci chiamava quando era sereno, sapendo che non ponevamo nessuna limitazione. Eravamo, pur soffrendo, nella posizione di dover terminare quello splendido lavoro solo a condizione che fosse felice e ci sentisse sinceramente disinteressati. Anche se avessimo smesso in quell’istante, noi avevamo già potuto apprezzare la gioia di quelle opere
Dopo 50 giorni di pioggia, il tempo decise di mettersi al bello. Ci dissero, all’inizio, che erano tre anni che non pioveva.
Non avevo mai visto tanta acqua e, subito dopo, la California così verde. La luce così intensa, i fiori che si spingevano oltre i limiti conosciuti.
Il clima nella casa cambiò, si allontanarono le nubi nere, e anche il lavoro per completare le incisioni era praticamente terminato. Rimaneva la parte della messa a punto dei colori.
Fu la settimana più eccitante. I colori e le forme ci avviluppavano e si estendevano da un’incisione all’altra, come fosse un’unica composizione e allo stesso tempo un numero indefinibile.
Le albe, dalla nostra camera, erano incredibili, con gli uccelli acquatici che, con l’alta marea, passavano praticamente sotto il nostro letto. In quell’atmosfera, riconoscevamo i colori che Sam usava e, man mano che il sole si alzava, s’illuminavano sempre più, sino ad abbagliare.
Una lunga amicizia, Victor Pasmore
Avevo già incontrato a Londra Victor Pasmore2, molto rapidamente; mi aveva sorpreso la sua disponibilità ad eseguire l’incisione per l’Unesco, come fosse un onore per lui e non il contrario, come fu invece, ahimé, per molti Artisti.
Lo invitai a venire a Roma ospite da noi ma, fino alla fine dell’estate, ormai prossima, non poteva muoversi da Malta, se non per brevissimi periodi, perché stava completando alcuni importanti lavori nella sua casa.
Era ormai fine maggio quando decisi di andare a Malta con il SIDA.
Passammo prima da Ponza, pur conoscendola da anni. Rimaneva una tappa obbligata perché è impossibile descriverne il fascino, la bellezza e la simpatia.
A quell’epoca, poi, nel ’72, era ineguagliabile, con Palmarola vicinissima, isola lunare per la lucentezza delle sue rocce, in contrasto con un’infinità di variazioni del fondo marino. Era raro trovare un mare più bello.
Poche miglia e toccammo Ventotene. La sosta nel porto Romano fu piacevolissima perché tutto era in scala umana.
Sentivi il porto tagliato addosso; il profumo dei fiori e delle erbe aromatiche del minuscolo villaggio si mescolava, a certe ore del mattino e della sera, ad un sano odore di pesce ancora vivo che rientrava con le poche barche.
Stranamente quel piccolo porto era fermo nel tempo.
Le bitte ricavate lì, nella roccia, determinavano i paletti di un’educazione marinara che i romani, a loro tempo, impararono con modestia ed applicarono nel rispetto della natura. Costruivano ripari sicuri come questo per chi doveva e sapeva navigare. Le stesse bitte, ancora oggi, danno la possibilità di ormeggiarsi con sicurezza anche a chi non ha quel minimo di cultura per capire e muoversi con rispetto in quel magico specchio di quiete.
Arrivati ad Ischia incontrammo Alexander Liberman con Tatiana sua moglie.
L’importante scultore americano ne era stato uno dei fondatori ed era in quel momento uno dei massimi esponenti della società editoriale Condé Nast, proprietaria fra l’altro della rivista “Vogue”.
Avevamo già preso appuntamento dal precedente inverno e non fu difficile installare un piccolo studio nell’Hotel Regina Isabella, dove risiedevano.
Occupammo, per alcuni procedimenti tecnici, una parte della grande cucina dell’Hotel la cui direzione si offrì generosamente e curiosamente di collaborare con le nostre stranezze.
Le lastre di rame entravano nel forno ed uscivano assieme a biscotti, torte ed altro genere di cibi, all’inizio con diffidenza da parte dei cuochi, poi con sempre maggiore curiosità e interesse.
Nacquero da quell’incontro una serie di incisioni piene di dinamismo ed immediatezza che, probabilmente, non fummo più in grado di ripetere nei lavori che facemmo a Roma negli anni a seguire.
Il modo di impostare, e forse di dissacrare, il lavoro dello stampatore in quella sede, fu sicuramente visto come un’impresa positiva da Helen Frankenthaler… che, in quei giorni, era ospite di Alexander ad Ischia. Helen ci propose di fare una esperienza di incisione con lei a Roma a settembre, prima del suo rientro a New York. Forse pensava di trovarsi implicata in una situazione simile a quella vissuta da Alexander
Ripartimmo da Ischia con i nostri figli che, ormai, si erano insediati fisiologicamente nel SIDA. Si fecero belle veleggiate, pescammo palamiti in abbondanza in navigazione e da fermi, occhiate e saraghi nelle baie. Si faceva vera vita di bordo.
Dopo alcuni brevi scali, arrivammo nello stretto di Messina proprio al momento del passaggio del pesce spada.
Ci fermammo nella zona più del previsto, catturati da quella caccia primitiva. Tutto era rimasto identico, tranne che al posto dei rematori c’era il motore.
Questa splendida terra, che percorremmo nel versante est per tutta la sua lunghezza, ci riempì gli occhi ed il cuore di meraviglie naturali e di un forte senso di civiltà.
La più forte presenza fu senz’altro l’Etna che ci sovrastava con la sua lanterna invasa di sole e lava quando sul mare appena albeggiava e per tutto il giorno con la sua straordinaria imponenza sotto cui si sentiva la vita.
La montagna ti seguiva per miglia e miglia nascondendo i suoi segreti all’interno, lanciando solo lievi segnali di fumo.
Appena più a sud, quando ci staccammo da Capo Passero, fu come se stessimo perdendo qualcosa d’importante che certamente a Malta non avremmo trovato.
Entrare nella casa di Victor e Wendy Pasmore fu come trovarsi all’interno di un’opera dell’Artista, non più inglese, ma straordinariamente mediterranea. Tutti gli elementi, anche i più funzionali, facevano parte di un disegno architettonico all’interno di una sua opera pittorica.
La luce di Malta, così abbagliante, veniva smorzata solo dalle ombre che all’interno del grande patio nascondevano le stanze prospicienti, negando all’occhio la possibilità di entrare nei dettagli e di definirne gli spazi.
Solo gli elementi assolati scattavano per le ombre riportate, creando delle assonanze quasi musicali volute dall’artista con molta precisione e calcolo. Il titolo dell’opera poteva essere: “Abstract in the Garden”.
Mi resi conto che tutti noi vivevamo quell’atmosfera in modo astratto, metafisico; come sospesi, non riuscivamo a sentirci in una posizione definita, ma, praticamente, era uno spazio che non ci poteva accogliere. Non eravamo stati previsti tra gli elementi utili in quella composizione.
La piscina di Pasmore fu per i miei figli il punto accogliente della casa che godettero per giorni.
Noi lavoravamo con Victor cercando di creare le basi di un rapporto d’amicizia e di lavoro che sarebbe durato per un trentennio.
Realizzammo senza incertezze l’incisione per l’Unesco. In quella prima opera grafica cercammo solo equilibri di forme e di colore, sicuri che avremmo fatto ben altri percorsi insieme.
Per Pasmore l’incisione era il modo per avere un certo ordine definito, un obbligo al rigore anche perché nel suo modo di dipingere poneva sempre dei tempi di maturazione assai lunghi.
Le opere uscivano dal suo studio già vissute e le incertezze tecniche, poco interessanti per lui, venivano mediate dalla patina del tempo.
“Brown image” fu l’opera grafica che fece scattare il bisogno in Victor di tornare alla stamperia a Roma con una frequenza ritmica, perché, con quella esperienza, si era reso conto che non c’erano limiti di grandezza, di colori, di, insomma, limiti, ma un’apertura a 360 gradi.
Pasmore era sensibile a tutto ciò che attraverso un processo evolutivo poteva acquistare nuovo valore, frutto di esperienze diverse, anche contrastanti, ma alla fine utili per il suo modo di procedere.
Il libro “The dance of man” fu sicuramente un impegno di lavoro dove l’artista mise a punto pittura e poesia, come se tutto fosse nato su uno spartito musicale. L’Artista usò le sue immagini e le poesie come note di una danza in uno spazio immaginario dove, chiunque lo volesse sfogliare, non avrebbe avuto l’obbligo di leggere la musica per ascoltarla.
Anche se in assoluto tutte le sue opere, anche le più piccole, vivevano di ampi respiri, nelle grandi dimensioni acquistavano dei valori architettonici così fortemente emblematici da sostenere equilibri impensabili in una pittura così semplice ed essenziale.
“Un bel dì vedremo” fu un’esperienza grafica dove le note musicali furono il titolo di quella splendida incisione.
Il liquido solvente scendeva lungo la lastra come fa la lava scendendo a valle e Victor ne modificava il tragitto. La forma dilagava sotto il suo occhio attento fino a creare l’immagine che aveva sognato.
Per la prima volta, dopo aver trasmesso il pathos necessario ad Eleonora, Victor volle fare immediatamente la prova di colore; non fu necessario fare una seconda prova, tutto era stato suonato nel modo migliore.
Pasmore fu affascinato dall’acquatinta e, certamente non per caso, la sua pittura si consolidò e si arricchì fortemente con questa esperienza. Ci furono momenti in cui certe immagini furono talmente riuscite ed esaltanti che lo stesso artista non ebbe il coraggio di utilizzare lo stesso soggetto per un’opera pittorica.
Un esempio fu la grande acquatinta “Burning water” che venne esposta, con tutte le opere stampate da noi fino a quel momento, in una grande mostra di grafica di Victor Pasmore alla Tate Gallery di Londra.
Il direttore Alan Bowness notò, fra tutte, la grande qualità di questa grande immagine e disse a Victor che gli sarebbe piaciuto avere per il Museo un’opera realizzata in pittura dello stesso soggetto.
Passarono alcuni mesi ed alla fine Victor scrisse una lettera ad Alan Bowness consigliandogli di acquistare l’opera grafica in quanto, dopo svariati tentativi, non era riuscito, in pittura, a raggiungere niente di meglio per quel soggetto e forse non ci sarebbe mai riuscito.
Dopo aver lavorato per giorni su alcune grandi lastre di un soggetto molto difficile, “La guerra”, decise che non era il caso di proseguire, molto deluso del risultato. Eleonora gli chiese se le avrebbe permesso di fare un ultimo tentativo durante l’intervallo del pranzo, cambiando solo il colore di base.
Credo di non aver mai visto Victor così stupito; era per lui una strana esperienza trovarsi improvvisamente davanti ad un soggetto, di cui era padre, sorpreso da tanta bellezza. Guardava Eleonora in modo nuovo, pur conoscendola ormai da tanto tempo, non essendosi mai accorto con quanta attenzione, partecipazione e competenza lo portava con i suoi colori abituali al buono di stampa.
Giulio Carlo Argan, in un articolo sull’“Espresso” del 5 dicembre ’82, dal titolo: “Il mondo in una macchia”, scrisse:
…Oggi la sua tecnica prediletta è la grafica di grande formato, forse perché gli permette di ribaltare l’architettura del suo primo costruttivismo stereometrico e di liberare l’immagine dalla contestualità con la consistenza materiale del quadro. E ha trovato a Roma, in quel mago della stampa d’arte che è Valter Rossi, un collaboratore più che interprete.
La ripetitività della stampa gli era necessaria: avendo ridotto l’arte a processo di simbolizzazione integrale, l’unicità dell’opera diventava una servitù intollerante. Nella tiratura limitata, la ripetizione dell’immagine è prescritta dalla sua stessa ritualità. Così come non può non ripetersi la sigla di un ornato bizantino.
La matrice dell’immagine mitica di Pasmore è paesistica, anzi ecologica: l’isola, l’arcipelago, la compenetrazione incessante della terra e del mare.
Il grande foglio bianco è interinata distesa luminosa ed i colori, gli stessi bruni e i neri, saturi di luce bevuta. La stupenda suite dei Punti di contatto, descrive la lenta, irresistibile attrazione delle gocce d’acqua che si fondono; altrove è il mistero del filtro o del travaso, dei rivoli che si fanno strada nella superficie ruvida, assorbente. Il mito atteso è quello delle nozze (avrebbe detto Blake) di terra, acqua e cielo: o del passaggio trionfale dal caso all’ordine, dalla macchia all’immagine…
Helen Frankenthaler
Al rientro da Malta trovammo Helen Frankenthaler insediata all’Ara Coeli, pronta al lavoro. Gli incontri avuti con l’Artista a New York, nella sua casa, nel suo studio e, successivamente, ad Ischia, non ci avevano fatto leggere il personaggio al punto da immaginare quale sorta di clima sarebbe nato prima della fase creativa.
Conoscevamo il suo lavoro di pittrice espressionista astratta e sapevamo che era considerata, dal mercato e dai musei, una colonna portante della pittura americana, ma non ne conoscevamo il carattere.
Il modo di vivere di Helen e le sue abitudini erano di lavorare con ritmi programmati, con grandi spazi dedicati ad avvicinarci al momento creativo, senza saperne il modo, senza avere quel minimo di indicazioni per immaginare cosa suggerire.
Helen aveva già fatto esperienze di grafica ed ora voleva capire cosa poteva sperimentare attraverso la nostra conoscenza ed esperienza, per cui era come partire da zero. Passavano le ore, noi guardando lei, lei scrutando noi. In quel periodo stampavamo Burri, Capogrossi ed Afro. C’era nella stamperia un fermento e una tensione fortissima, che non mi permise di essere totalmente disponibile e pensammo così di fare una prima indagine pratica conoscitiva.
Nelle prime incisioni: “Passeggiata romana”, “Ponti”, “Pranzo italiano”, come i titoli evidenziano, ci limitammo a compiere un brevissimo tour romano, tecnico, di ospitalità. Perché, conoscendo meglio Helen, ci rendemmo conto della necessità di liberarla dalle sue preoccupazioni per mostrarci la sua vera competenza, la pittura.
Negli anni che seguirono ci incontrammo molte volte a Roma, New York ed a Ischia, ma le date, per molte ragioni, non coincisero, fino al momento in cui si decise di attivare la stamperia a New York. In quella sede arrivammo con lei a produrre una serie di incisioni memorabili alle quali più avanti darò ampio spazio.
>Monte Bianco dalle Alpi alle Piramidi
Quando arrivammo sulla vetta del monte Bianco, non era la classica gita che si poteva fare da Courmayeur o da Chamonix, ma lassù, sulla vetta vera, abbandonati dall’elicottero, era uno sgomento!
Solo gli sci ti legavano alla terra, ma non li vedevi perché la neve, così polverosa e leggera, ti arrivava fino alla cintura… il resto era puro spazio.
Tutto diventava lontanamente piccolo; da quella distanza nulla di definito ti portava al nostro tempo finché non pensavi alla discesa, ed eri, in quel momento, il primo uomo sulla terra.
Non c’erano tracce sotto di te e la tensione diminuiva solo per la fiducia che riponevo in quel momento in Agostino Perroux che, da espertissima guida e magnifico sciatore, tracciava con l’occhio la possibile discesa in quella neve incontaminata, là dove era certo di non aver sorprese e di godere quasi incoscientemente quanto si doveva compiere, “la più bella discesa della mia vita”.
La sensazione di stupore, la tensione, l’eccitazione e la consapevolezza che fosse un miracolo, ci fece scendere a valle in una nuvola di sensazioni, dove la stanchezza non osò presentarsi mai.
Apnee interminabili intervallate da respiri che non osavamo interrompere.
Quell’affogarsi sotto la polvere bianca che si levava come una nube per il grande spostamento di neve che ad ogni curva alzavamo, quasi fosse un’onda oceanica schiacciata dal surf.
Ogni profondo piegamento corrispondeva ad una immersione e ogni distensione ad una apparizione.
Non c’era nulla che non si potesse fare, anche nelle massime pendenze, perché il tipo di neve leggerissima ti sosteneva come una mano carezzevole e forte allo stesso tempo.
Prima di lasciare una vallata per affacciarsi alla successiva, ci fermavamo per godere delle nostre tracce che avevamo lasciato.
Si presentavano con ritmi che dipendevano dal nostro stato d’animo e dalla sicurezza che, man mano, facevamo nostra. Non c’erano dissonanze, i ritmi erano scanditi, la ripetizione non era altro che una somma di gioia, come un tam tam ovattato… forse… era il battito del nostro cuore.
Quando ero con Burri riuscivo a trasferirgli queste sensazioni che lui non conosceva, ma ne era felice perché amava tutti gli sport. Un anno riuscii a portarlo in cima al Monte Bianco solo per godere insieme di tanta meraviglia.
Pierre Alechinsky
Era l’autunno del ’72 quando Giuseppe Santomaso ci presentò l’editore Ives Rivieres con il quale progettammo e realizzammo un libro molto originale e nuovo, dove Santomaso si divertì a dialogare con Veronica Franco, poetessa del ’700, cortigiana colta ed intrigante. Soprattutto fu un buon motivo per l’artista per creare, con noi, in seguito una serie di splendide incisioni.
Ives Rivieres, durante gli innumerevoli incontri, mi parlò della sua amicizia con Pierre Alechinsky, con il quale aveva fatto molti cataloghi e libri quando lavorava con Skirà.
Mi disse che, per l’estate del ’73, aveva previsto di andare con Pierre e le rispettive famiglie a Bodrum in Turchia, dove si sarebbero fermati per un lungo periodo.
La navigazione tra le isole greche e la Turchia era già stata prevista nei miei progetti ed il motivo in più, quello di conoscere Alechinsky in maniera informale, mi indusse per tempo a trasferire il SIDA sempre più a sud, in varie tappe, prima dell’estate.
Quando lasciammo l’Italia, dopo Capo Spartivento, facemmo rotta su Paxos.
La navigazione fu molto dolce; un vento piacevolmente costante ci accompagnò per tutto il giorno e la notte, permettendoci di pescare un grosso splendido tonno. Nella tarda mattinata giungemmo sulla punta nord di Paxos.
Era la prima isola greca che toccavamo. Fu una grande emozione immaginare di essere arrivati via mare ed avere quella apparizione concreta, quella luce nuova che si faceva strada tra ulivi secolari.
I nostri occhi cercavano similitudini per aiutare la nostra memoria a sollecitare un impulso emotivo già provato; anche gli odori che giungevano era nuovi per noi.
Grande fu l’euforia che ci accompagnò fino all’ingresso di Porto Lacca, dove demmo fondo per fare il primo bagno.
Il piccolo vecchio villaggio che si affacciava sulla baia aveva un’aria allegra, accattivante, ma non si vedeva nessuno.
Si affacciava su di noi un paesaggio cristallizzato; sicuramente eravamo osservati dai pochi abitanti, non molti, ma tutti.
Buttandoci in quell’acqua limpida, ci sembrò di tuffarci nella storia; fu come un battesimo che ci preparava ad accettare il fatto che proprio lì era nato il bello, in quella culla e da lì partimmo per: Porto Gaio, Skorpios, Itaca, Lepanto, Corinto, Atene, Sunion, Naxos, Paros, Despotico, Amorgos, Calimnos, Kos, Bodrum.
Bodrum
Ci fu detto che, appena si arrivava sulla costa Turca, il famoso vento greco il “meltemi”, non ci sarebbe più stato, ma in realtà il vento cambiava solo di nome: “poiraz”.
Prima di arrivare a Bodrum, ci fermammo in una baia accogliente con un vento noioso ancora a 30 nodi. Ormai stava imbrunendo e poiché per fare tutte le operazioni doganali, come ci era stato riferito, ci sarebbe voluta mezza giornata, decidemmo di passare la notte respirando la prima aria Turca in modo un po’ fuorilegge.
Alla mattina mi svegliai molto presto perché volevo arrivare a Bodrum per fare l’ingresso dovuto.
Appena mi affacciai dalla barca, notai, sotto alcune grandi piante in riva al mare, un movimento di animali e persone. Rimasi ad osservare finché l’occhio non si abituò e compresi che era una carovana di contadini che si muoveva con i suoi dromedari.
Svegliai i bambini che furono felici di vedere al lavoro, per la prima volta, i curiosi animali. Trovammo poi, nel pomeriggio, a Bodrum, il mercato settimanale dove era diretta la carovana del mattino.
Non ricordo di aver mai visto un mercato così genuino e che non tenesse minimamente conto di gusti e abitudini dei turisti. La nostra curiosità era senz’altro grande, la loro, benché facessero finta di non osservarci, era penetrante.
Fu la prima volta che oltre a mettere la bandiera di cortesia Turca, fabbricata da noi prima di arrivare, issammo anche la bandiera gialla di quarantena. Essa assumeva un valore non solo formale ma anche pratico, in quanto richiedeva la visita dell’ufficiale medico sulla nostra imbarcazione prima di poter scendere a terra.
Subimmo invece un forte rimprovero da parte della Polizia Marittima per la semplificata e ingenua bandiera da noi prodotta, e fummo obbligati ad ammainarla immediatamente e issarne un’altra. Ci fu richiesto di comprarla subito nel negozio di fronte.
Il proprietario fu felice di regalarcela, in quanto, lui, non aveva mai visto una barca Italiana nel porto di Bodrum.
Ci fecero ormeggiare sotto il Castello, tra una nave da guerra e una strana imbarcazione con bandiera Olandese, attraccata vicino ad una vela Canadese. Rimanevano poi solo alcune piccole barche da pesca, per i turisti, con grandi bandiere Turche.
Ci eravamo ormai abituati a subire le solite domande: “da dove venite? che bandiera è mai quella…?”. Poi, una signora, con un francese fluido, un viso colpito dal sole, molto espressivo, mi domandò se venivamo da Roma e al mio assenso disse “allora siete gli amici di Ives Rivieres?”. “Certo!” risposi. A quel punto si presentò: “Sono Miki Alechinsky, non credevamo sareste mai giunti a Bodrum. Per noi arrivare in automobile è stato un vero problema, ma il posto è così bello e diverso che si merita tutte le fatiche e i guai subiti”.
Dopo due ore, sul SIDA, eravamo in undici persone: Pierre, con un cappello tipo legione straniera per evitare che il sole finisse di distruggerlo, fu subito amichevolmente disponibile. Ives sicuramente lo aveva informato delle mie intenzioni di incontrarlo, ma non immaginava che sulla barca mi ero portato tutta l’attrezzatura necessaria per realizzare qualche incisione.
Oltre a Pierre e Miki, c’erano Nicolas loro figlio, Ives Riviere e sua moglie Niki, Jean Clerté assistente e stampatore di Pierrre con sua figlia. Tutti erano alloggiati in un piccolo albergo sul porto, decente per quell’epoca, adattissimo a Pierre perché la sua stanza era direttamente aperta su un enorme terrazzo che si affacciava sul porto. Quello era il suo studio dove poteva lavorare.
L’atmosfera che si godeva da quella posizione era fantastica. Il castello di fronte, pur grande, finiva con l’essere come un passante in una folla variopinta.
La storia di Alicarnasso non aveva lasciato tracce visibili ma era tutta presente per lo spettacolo della natura circostante, immersa in una luce tersa e intensa che ci faceva cogliere particolari e dettagli solitamente sfuocati.
Una composizione così vasta è ancora nella mia memoria. Anche profili di montagne a distanze incredibili si avvicinavano, con la loro silhouette, come quinte su quinte con una gamma di colori inimmaginabili. Dalla parte opposta, le isole in successione lasciavano poco spazio al mare perché sentivi che altre isole erano pronte ad apparire.
Nei giorni successivi andammo in macchina a visitare Didima, Mileto, ed Efeso.
La nostra piccola carovana si spostava in quelle antiche aree, sollecitata in tutti noi da vecchi amori e memorie studentesche risvegliate man mano che i nostri occhi si posavano su questo o quell’insediamento.
Per la prima volta, con Eleonora, ci rendemmo conto che, anche se i Romani erano riusciti a distruggere il bello per instaurare il loro modello urbanistico, in quei siti, nel letargo dei secoli, affiorava qua e là, in piccoli frammenti, solo la gioia della bellezza greca, perché l’architettura romana, persa la funzione per cui era nata, rimaneva una comparsa metafisica.
Il modo di lettura degli amici francesi invece, era distaccato, con meno emozione, come stessero ancora subendo la dominazione romana. Noi affrontavamo obiettivamente ruoli critici, consapevoli che la bellezza greca, per l’invasore romano, doveva cedere il passo alla loro dominazione.
Su quel terrazzo prese vita un gran numero di opere, che Pierre realizzava subito dopo ogni visita, tra mare e monti e civiltà così diverse. Era entusiasta delle innumerevoli idee che riusciva a catturare. L’unica preoccupazione era di avere con sé carta a sufficienza per poter saziare la sua fame di pittura.
Pierre sapeva che sul SIDA avevamo portato alcune lastre di rame e che, volendo, avremmo potuto realizzare qualche incisione. Incominciò a parlarne il giorno che decidemmo di andare a Knidos, penisola colma di antichità, accessibile in quei tempi solo dal mare.
La prima difficoltà, arrivando nella piccola baia, fu che i militari ci impedirono di atterrare con il tender. Si poteva andare a terra solo a nuoto e per un brevissimo tempo.
Qui le fibrillazioni di Pierre incominciarono ad affiorare perché era la prima volta che aveva un contatto così drastico e intimidatorio, proprio là, dove un uomo di cultura come lui aveva il diritto di essere accolto con rispetto e con la massima generosità. Tutto questo, quei soldati armati, non erano certo in grado di capire.
Avevo saputo da Danny Berger, che in quel periodo collaborava con noi per aprire la galleria a Roma, che a Knidos gli scavi erano diretti da una sua amica, Iris Cornelia Love, archeologo americana che lì lavorava da alcuni anni per la Long Island University.
La prima cosa che feci, atterrando a nuoto nella baia fu di cercare Iris, che già da terra aveva notato la bandiera Italiana sventolare sul SIDA e non attendeva altro che incontrarci.
Era una appassionata amante del nostro paese. Quando la chiamai per nome, mi abbracciò affettuosamente e lì capii che Danny l’aveva avvertita della nostra probabile visita.
Il culto di Afrodite in quella penisola era stato il motivo di quell’insediamento e quella era la ricerca che si erano prefissi di attuare con quello scavo. Iris aveva iniziato gli scavi, già dal 1967, con alcuni giovani ricercatori americani, aiutati da una cinquantina di operai turchi locali che lavoravano con molto entusiasmo a questa iniziativa.
Al tramonto dovevamo ritornare a nuoto in barca dove ospitavamo a cena Iris e, a rotazione, alcuni suoi collaboratori. Con la fantasia alimentata dalle varie scoperte che avvenivano giornalmente, si arrivava ad immaginare quanto il periodo greco, in quel sito, aveva lasciato in eredità. Pierre fu interessato più dai racconti che sentiva, che dai ritrovamenti.
In quella baia, una mattina, Pierre mi chiese di affrontare le lastre di rame, si sentiva pronto e carico. Così nacquero, sul SIDA, le due incisioni: “Mare nostrum” e “Arbre de vie”, sbalordendo tutti noi, Iris compresa. Una sintesi conoscitiva, in quello spazio saturo di storia, recuperata in lettura “Cobra”.
Il colore, in quella parte del Mediterraneo, è così esasperato dal sole che si riduce al bianco e nero; in una delle due incisioni c’era solo una piccolissima nota di rosso, una presenza, che esaltava il valore saturo di luce del “Phicus” inciso sul rame. La grande lastra era sostenuta da sette piccole metope che contenevano incise altrettante radici.
Questa prima intensissima, magnifica esperienza con Pierre rese necessario un nuovo incontro che avvenne a Roma.
Nel pomeriggio del 24 dicembre 1973, arrivato a casa nostra, chiese di vedere subito la stamperia. Di fronte al torchio che incombeva, mi chiese qual era la dimensione più grande che avremmo potuto eseguire; gli risposi che non c’erano limiti, che fosse lui a stabilirla, disse: “due metri per tre metri”.
Lanciata la dimensione, come una sfida, preparammo immediatamente le lastre per essere incise con la tecnica che già avevamo saggiato in Turchia.
Pierre diede mano al suo pennello come utilizzasse un’arma.
Iniziò tenendo la mano destra in avanti staccata dal corpo per stabilire una distanza, poi portò la stessa mano dietro alla schiena. Con un consistente pennello cinese, iniziò con la mano sinistra a tracciare quel suo tipico segno: con il distaccarsi o l’avvicinarsi alla superficie del rame, diventava da finissimo a sempre più grande, fino a formare masse corpose, per poi ritornare, d’improvviso, ad essere teso e sottile.
Man mano che l’Artista entrava nella composizione era talmente coinvolto che diventava necessario alimentare il pennello con il liquido in modo continuo. Prese il recipiente nella mano destra e attaccò le lastre senza tregua fino alla fine.
Lavorammo per tutta la notte. Incidemmo con l’acido varie morsure senza sosta. La mattina di Natale, nacque “Aveuglette”, credo la più grande incisione al mondo, due metri per tre, con una dedica: “pour Valter et Eleonora complices”.
Una conversazione tra Alechinsky e Diane Kelder
Sto cercando di raggiungere la spontaneità dell’acquerello, dipingendo direttamente sulla lastra preparata con la grana, ciò mi permette un modo di lavorare che si avvicina alla mia pittura.
Di solito comincio con delle pennellate che provocano la mia immaginazione. Poi disegno, seguo l’immagine. Miró disse di se stesso “Lavoro come un giardiniere” e io lavoro con due piedi nel sogno. La prima lastra l’ho trattata come se fosse stata un acquerello. Valter mi mostrò una prova e stampò l’immagine su di una seconda lastra, come una specie di aide-mémoire, è utile per prendere una decisione, quando dico decisione, intendo aggiungere ed eliminare, simile alla tecnica del montaggio (tagliando ed aggiungendo) o come lo scrivere. La grande differenza tra lo scrittore ed il pittore è che il pittore rivela le proprie tracce dell’eliminazione, mentre lo scritto nasconde le esitazioni dello scrittore. Il pittore mostra i propri ripensamenti, le sue correzioni finisce con amarle per imporle.
Entrare in stamperia significa abbandonare la solitudine del proprio studio. Avendo preferito la terrazza del caffè per quarant’anni, ho optato per il calore della stamperia.
Per diciassette anni ho avuto un grande torchio in casa che non aveva mai smesso di lavorare. Nel 1984 ho ceduto ad una esperienza nell’insegnamento… ero professore di pittura all’Ecole des Beaux-Arts. Quell’attività, che fu fortunatamente effimera, disorganizzò totalmente la mia stamperia. Quando riacquistai la mia libertà incominciai a lavorare immediatamente con Valter nel suo nuovo studio, alle Terme di Caracalla, che non avevo mai visto. Feci alcune grandi incisioni. Quando dico alcune, intendo una tale quantità ed in condizioni talmente ideali che decisi rapidamente di liberarmi del mio torchio, con grande gioia di mia moglie che da tempo aspettava quel momento per ingrandire la sua cucina. Direi che in quindici giorni di lavoro intenso a Roma, mentre lo Staff mi seguiva come dei “servants d’une piece d’artillerie”, ho prodotto l’equivalente di uno o due anni di lavoro sul mio torchio. Valter ha perfezionato una tecnica di acquatinta quasi troppo perfetta che alcune volte sono costretto a disturbare.
Questa tecnica, così, mi concerne, perché provoca la mia naiveté. Brevemente: ci sono dei momenti in cui l’artista avendo anche uno Steinway a sua disposizione, prova piacere nel giocare con un solo dito.
Roma, 14 ottobre 1988
Graham Sutherland
Graham Sutherland stava ore ad osservare con una certa invidia il segno così deciso e fluente di Pierre Alechinsky. Graham, da giovane, si era dedicato con passione all’acquaforte e assieme a noi assai cautamente la stava riprendendo.
Il suo guardare Pierre, con quella insistenza, ci aveva disorientato impedendoci di suggerire, rapidamente, la giusta tecnica per portarlo nel suo mondo visionario.
La verità era che, nel segno, lui cercava qualcosa di tortuoso, quasi masticato, in assoluto contrasto col segno netto e fluente di Alechinsky.
Montammo una piccola stamperia nel casolare-dépandance vicinissimo alla casa e studio dell’Artista: Villa Blanche a Mentone.
Qui vivevano nel completo isolamento Graham e Kathleen.
Il nostro intervento non fu traumatico perché, al momento opportuno, sapevamo essere invisibili.
Graham era scopertamente innamorato dell’incisione.
Già alla seconda opera sapeva dove e come procedere. Rimaneva comunque ancorato alla curiosità tecnica; voleva capire ogni passaggio con tutti i dettagli. Spesso prendeva appunti pensando così di tornare all’autonomia di cui aveva goduto quando era giovane ed insegnava acquaforte a Londra.
Il primo ostacolo, in verità, lo aveva superato Eleonora che era riuscita a stampare, con tutta la sua passione e concentrazione, una lastra che Graham aveva inciso nel 1930 e non era mai riuscito a realizzare in molti tentativi, sia da solo che con altri stampatori.
Quando si concretizzò il “bon à tirer”, fu talmente felice da voler tirare l’edizione utilizzando una carta del ’700 che aveva acquistato a Londra negli anni ’50.
Per noi, andare a Mentone era un vero piacere. Per anni fu una tappa primaverile e autunnale assolutamente naturale; ci permetteva ogni volta di trovare le condizioni ideali per far nascere progetti complessi, molto intriganti e provocatori sotto un profilo tecnico per noi, e per Graham creativo.
Lavoravamo completamente isolati, in una atmosfera surreale, con ritmi legati alle abitudini dell’artista. Molte volte, incuriosito, ci sorprendeva con le sue apparizioni, ma doveva arrendersi ai tempi tecnici necessari ed indispensabili nei vari passaggi, prima di arrivare alla stampa.
Nelle ore di attesa in quello studio, l’occhio spaziava per centottanta gradi sul mare; non mi stancavo mai di guardarlo e la mia mente navigava ben più lontano, raggiungendo infatti la mia barca e avendo spesso la sensazione di esserci sopra.
Eleonora amava passeggiare nel giardino dove le piante erano ricche di fiori e frutti per la grande cura e per la fortuna di godere un clima mite, in quell’area, anche in inverno.
Fu lì che iniziò ad occuparsi seriamente di botanica. Le sue nottate dipendevano dal numero di libri che si ammucchiavano ben oltre il suo ritmo di lettura.
Si passeggiava in quel giardino ogni giorno con Graham per andare dalla sua casa allo studio e per tornare. Facevamo ogni volta un cammino diverso perché lui cercava di cogliere un particolare della natura in contrasto con il bello assoluto che ci circondava.
Allora lo fermava con semplici segni e riferimenti sul suo sketch book.
Una volta nel suo studio, elaborava quel particolare separandolo dal contesto in cui lo aveva colto e lo inseriva in un ambiente completamente astratto e surreale rispetto all’origine, da cui era stato quasi estirpato.
Sapevo fin dall’inizio che Sutherland non voleva nessuno nel suo spazio di lavoro. Anni prima, a Parigi, nella stamperia di Morlot, avevano attrezzato una parte dell’atelier con una tenda per separare l’artista dagli stampatori, nei momenti in cui lavorava.
Questa è un’esigenza che hanno molti artisti. Bisogna essere presenti con riserbo e sensibilità, solo quando l’artista ne sente il bisogno, un attimo prima e non un attimo dopo.
In questo modo la presenza del tecnico diventa indispensabile e piacevole.
Graham ammise, solo in seguito, che eravamo stati i primi, nella sua vita, a essere presenti attivamente e positivamente alla nascita di una sua opera.
Ricordo che nei lunghi viaggi da Roma a Villa Blanche con Eleonora, cercavamo di prevedere il modo giusto per rendere spontaneo e piacevole il lavoro di Graham con noi.
Per la visione così particolare dell’artista sull’argomento “natura”, dovevamo lasciare vasti spazi all’immaginazione. Poi ci toccava compensare con degli espedienti senza lasciar dubbi sul processo tecnico in modo che tutto fosse logico.
Al ritorno da Mentone a Roma ci sentivamo carichi di responsabilità e voglia di rendere concreto tutto il lavoro che eravamo riusciti a realizzare in quel piccolo paradiso.
Mentre ci allontanavamo da Villa Blanche, la sensazione era di aver colto con amore i segreti di una poesia nascosta, molto intima.
La cartella dal titolo “Bees” e, successivamente, la cartella dedicata ad Apollinaire, dal titolo “Le bestiaire”, sono due opere dove la complessità dei temi e il numero dei soggetti avrebbero intimorito molti artisti. Per Graham, un vero amante dell’incisione, fu un’occasione importante per approfondire temi che nascevano dai suoi sketch book e che, senza l’incisione come pretesto, non si sarebbero mai sviluppati.
La grafica per gli scultori
C’è un’importante differenza, nel realizzare un’opera grafica, tra la visione artistica del pittore e quella dello scultore.
Nel nostro studio questa differenza è stata chiara già nei primi anni di attività perché abbiamo dato al pittore tutto il colore che noi potevamo e lui voleva, senza limiti. In qualche modo, lo scultore, pur attratto dal colore, legge in modo tridimensionale. Questo porta fatalmente al rilievo e alla materia naturale da cui nasce la sua esperienza.
Giò e Arnaldo Pomodoro furono sicuramente affascinati dalle incisioni di Burri e di Fontana, dove la materia e la tridimensionalità sono assolutamente evidenti e nuove in modo sorprendente. In quegli anni la tecnica dell’incisione era molto limitata. La ricerca era assente; tutto era fossilizzato nella cultura del segno, facendo, su questo, vere apologie, pensando che tutto il sapere fosse lì contenuto.
È vero che sul segno, probabilmente, c’è ancora da scrivere ma è altrettanto vero questo: elementi fondamentali che potevano esaltare il supporto cartaceo e portarlo al livello di una tela o di una tavola sono nati sui nostri torchi attraverso l’osservazione delle prime incisioni di Burri e Fontana che hanno invogliato gli Artisti ad aggiungere qualcosa di loro.
Giò Pomodoro
Giò Pomodoro iniziò proprio con dei rilievi bianchi, partendo da fusioni negative in bronzo come matrici. Venivano stampate mediante grandi pressioni con risultati che, pur nella loro purezza, non avevano l’imprimatur grafico dell’Artista. Assomigliavano più a dei gessi, anche se la carta illudeva moltissimo, dando un effetto compiuto ma ambiguo.
Pomodoro si rese subito conto che poteva sfruttare anche il colore, ma un colore che fosse vicino ai metalli dal quale uno scultore non può separarsi facilmente.
I risultati erano buoni ma, per l’Artista, quello era un effetto grafico gratuito e dopo le prime esperienze si dimostrò troppo ripetitivo. Decise di affrontare le lastre di rame in modo tradizionale prendendo come tema il mondo Etrusco.
Giò sapeva della nostra esperienza nell’area etrusca, e, mesi prima, sfruttando le nostre conoscenze giovanili, ci chiese di visitare la necropoli di Cerveteri. Il risultato fu uno spunto per molte grafiche nate in quel periodo e anche sicuramente per la sua amata scultura.
Pietro Consagra
La cosa opposta avvenne con Pietro Consagra che iniziò la sua prima esperienza al nostro studio con una serie di sette litografie del 1967 eseguite per la Galleria Marlborough. Il colore creava le forme e le silhouette vibranti davano una sensazione di spessore apparente.
Una serie di sei rilievi bianchi fu un intervallo di curiosità di breve durata ma un’edizione assolutamente mistica e sottile.
La provocazione delle grandi dimensioni portò anche Pietro a confrontarsi con acidi e rami.
La sua idea geniale di “città frontale” ci facilitò il compito perché la terza dimensione, in questo caso, era così ambigua da nascondere i valori prospettici.
Al momento della stampa apparvero sulla carta, in un ineguagliabile e misterioso equilibrio, le forme plastiche. Città ridotte di spessore per dar spazio alla fantasia e al “sogno”.
Pietro diede alle sue opere titoli dai nomi simbolici, legati alla sua terra vulcanica, facendo affiorare un mondo greco mitologico, nel quale egli sentiva certo di avere sue radici.
Inizialmente, nel suo atteggiamento, c’era una certa diffidenza che ci poneva distanti dal suo modo di pensare e, con difficoltà, riuscivamo a trovare un dialogo scorrevole e costruttivo.
Nel lavoro era molto taciturno, sulle sue, a differenza di noi che cercavamo proprio col dialogo di recepire al massimo tutte le sensazioni utili per poter dare al massimo gli ingredienti necessari e spesso nuovi per l’artista.
Con l’acquatinta “Inventario” 1972, della serie “Presenze grafiche”, si capì quale era la strada da seguire; la percorremmo per intero negli anni seguenti, ma sempre con un certo distacco.
C’era una barriera formata e colma di fichi d’india maturi… ci accontentammo di saggiarne solo alcuni.
Arnaldo Pomodoro
Arnaldo Pomodoro, all’inizio degli anni ’70, realizzò la prima lastra in acquaforte per la serie “Presenze grafiche”, dopo un’esperienza precedente litografica che fummo quasi obbligati a percorrere. Arnaldo, infatti, in quel periodo, aveva sperimentato con Gemini, editore americano, una serie interessante di litografie che ebbero il merito di far entrare Pomodoro nel mondo della grafica.
Questa incisione, molto schematica ed essenziale, fatta con noi, fu sicuramente la prima esperienza per Arnaldo, dove il puro rilievo faceva vivere la forma da lui prediletta: la “SFERA”.
L’edizione, poi, fu realizzata sfruttando il valore degli ossidi della lastra, come una acquatinta, inchiostrandola con un colore metallico.Ci rendemmo conto da subito che Arnaldo Pomodoro utilizzava le tecniche grafiche per realizzare un suo progetto iniziale, come una sintesi che preannunciava la nascita della sua nuova o futura scultura.
A quel punto abbiamo pensato di sfruttare le tecniche ed il suo sapere di scultore per applicarle alla grafica in modo che diventasse per l’Artista lo stesso metodo di lavoro.
La difficoltà fu di trovare il punto d’incontro ideale, riuscendo a rendere grafico un segno scultoreo, senza far sembrare l’impresa grafica una rappresentazione povera e ripetitiva di una sua scultura.
La certezza di essere sulla giusta strada ci portò a realizzare una serie di incisioni assolutamente irripetibili, da chiunque ci avesse mai provato. Tentarono in molti ma, Arnaldo, pur generoso e aperto ad eventuali esperimenti e collaborazioni, escluse, col tempo, di fare con altri ciò che sapeva di poter avere facilmente da noi.
Le matrici furono inizialmente realizzate in fusione di bronzo, successivamente in resina epossidica dove poi, con strumenti idonei, Arnaldo interveniva incidendo e modificando il materiale. Va chiarito che Pomodoro partiva dalla creta, sua abituale materia, della quale conosceva ogni segreto. Sapeva che il fine era diverso in quanto poteva contare successivamente su lastre aggiuntive, acquatinta ed, in molti casi, anche acquaforte e puntasecca per rafforzare o dettagliare alcuni elementi assolutamente grafici.
Questo magnifico sposalizio di tecniche aiutò, a partire dagli anni ’70, a far nascere molte incisioni, da piccolissime, come per esempio la serie delle “Sette lettere”, per poi arrivare ai grandi formati come “Foglio lungo di Urbino”, “Foglio lungo di Pavia” e le splendide incisioni dedicate a “Ugo Mulas”, e a “Gastone Novelli”. E via di seguito fino ai “Sogni” degli anni ’90 e al magnifico lavoro a quattro mani realizzato con Enzo Cucchi. Seguirono poi la serie delle “Tracce” del ’95, e il complesso ed elaboratissimo libro che abbiamo terminato nel 2004: SETTE FRAMMENTI da L’arte dell’uomo primordiale di Emilio Villa.
In questo libro i materiali: piombo, rame e carta convivono e danno forza alla poesia di Emilio Villa, nel mondo quasi ossessivo vissuto da Arnaldo Pomodoro, coinvolto dalle righe e dai sentimenti ermetici del grande poeta amico.
È sicuramente un grande omaggio alla cultura, in quanto la lettura dell’immagine tridimensionale, inizialmente, porta ad una analisi del bell’oggetto ma subito dopo si è affascinati da un tessuto di lettere che rimbalzano attraverso, sopra e sotto, formando poesia, facendo scattare una molteplice e ben più profonda curiosità che coinvolge e dà spazio ad una miriade di interpretazioni.
Simona, mia figlia, lo ha presentato nella sua galleria in una mostra dedicata ad Arnaldo Pomodoro. Il volume è stato esposto in un’unica teca con una semplicità assoluta.
In quella occasione erano presenti alcune sculture e la serie dei sette soggetti, delle incisioni, fusi in bronzo, usciti dalle stesse crete rielaborate dall’Artista per la diversa applicazione.
Il bronzo è riuscito a dare un impatto assolutamente forte e convincente alle sette immagini. Le stesse opere su carta mantengono e dichiarano un senso di comunicazione tattile sorprendente, un’appartenenza ad un mondo sicuramente più fragile e leggero ma stabile, almeno quanto i papiri, rispetto alla pietra consumata solo dal vento.
L’ultima fatica di Arnaldo è un’opera grafica che ha voluto dedicare all’amico poeta Leonetti, molto impegnativa. Una sindone che fa affiorare le realtà vissute e sofferte in era contemporanea, dove il poeta naviga e affiora con le sue intuizioni tra gli spazi concessi, con rigore e generosità, dallo scultore: “…Noi peschiamo dentro il tutto errante, in un insieme – ed è questo il solo senso”.
Nel progetto iniziale si era pensato ad un libro tradizionale, poi nella mente di Arnaldo la cosa si è trasformata, seguendo una strada di grande rispetto, decidendo di inchiodare noi e se stesso sulla croce, per permettere alle righe tipografiche del poeta di occupare lo spazio a lui gradito. Era un omaggio a Leonetti e Arnaldo ha voluto che fosse tale.
Le cose si sono svolte semplicemente, a parte il formato cm.140 x 200: la gestione delle quattro lastre che devono formare un tutt’uno, la rigorosa necessità che gli attacchi dei quattro fogli di carta coincidano in modo perfetto, la necessità che l’inchiostrazione delle quattro superfici fatte in tempi diversi risulti come unica, il colore… in fondo per chi la guarda è solo un’incisione.
Louise Nevelson
Assolutamente personale era l’atteggiamento di Louise Nevelson verso il mondo della grafica che nasceva da una sorta di strutturale intimità che pochi critici hanno saputo cogliere nel suo lavoro.
Sin dal primo incontro nella sua casa di New York, abbiamo colto questo modo così personale di introdurci nel suo mondo di ombre-penombre. È come una dichiarazione nella quale ti è permesso di leggere, se vuoi, ma non di commentare. L’opera appare solo quando l’occhio si è abituato a quel tipo di lettura in penombra.
Pur avanti negli anni, la sua presenza, il fascino e il grande carisma non ne avevano certo sofferto: la ricordo come una sacerdotessa, una vestale a guardia del suo lavoro, abitato in quello spazio da gatti neri, fermi come fossero scolpiti da una mano egizia, spazi lasciati quasi per accoglierli, spazi senza quinte perché la somma di nero dà nero.
Solo con la luce che, per necessità di dialogo, veniva accesa, ci si trovava di fronte a qualcosa di animato, sia per il fuggi fuggi dei gatti ma, ancora di più, per tutte le forme geometriche che improvvisamente si presentavano come degli attori su innumerevoli palcoscenici. Louise capì, sin dalle prime parole, che eravamo entrati nel suo esclusivo mondo con rispetto e senza riserve.
La presentazione dell’Unesco ci aveva dato la possibilità di incontrarla. Lei sapeva di noi in quanto conosceva molti particolari del nostro lavoro, cosa che ci permise di affrontare il progetto con facilità.
Il termine intimità, da solo, non chiarisce il valore riferito alla Nevelson. Per me è evidente in quanto ho assistito alla fase preparatoria per introdurla nel nuovo media che gli proponevo: acquaforte, acquatinta, puntasecca che in quel momento ritenevo giusto.
Avevo capito di quanta sensibilità Louise aveva bisogno nel toccare quegli elementi costruttivi che non erano assolutamente tridimensionali ma che uscivano con una spontaneità fanciullesca, come se volesse trovare l’ispirazione aprendo un vecchio baule pieno di ricordi, nella sua casa di Kiev dove era nata.
Ecco che l’acquatinta, per prima, diede la possibilità di creare piani voluti con una tensione dinamica vibrante. Piccole morsure erano sufficienti a modificare i percorsi e creare spazi di luce. Da questi spazi affiorava la fantasia prima con l’acquaforte, dando tempo di evidenziare tessuti ricamati, odori e umori, per poi riportarli alla realtà con forti segni alla puntasecca. Segni come paesaggi sfuocati che si facevano largo tra i blocchi formati dai palazzi di New York, prendendo al volo piccoli lembi di giornale abbandonati dal vento ed utilizzati come unico elemento appena tridimensionale: un collage.
Ricordo ancora oggi, dopo più di trent’anni, il grande impatto che ebbe la serie di incisioni, fatte in co-edizione con la Pace Gallery, presentate nel ’73, sorprendentemente autonome da esperienze precedenti che aveva avuto l’Artista, così forti e cariche di contenuti ed elementi innovativi, senza alcun virtuosismo pseudo grafico.
George Segal
“Potremmo avere un rendez-vous?”. Così fu il primo contatto telefonico con George Segal che alla domanda di Eleonora, per la proprietà del vocabolo usato, non diede che una risposta positiva: “certo… Eleonora” seguita da una solenne risata.
Comunque fu il pretesto per vederci e, già al primo incontro, capire che era nato un feeling ed una tensione capaci di creare quell’interesse reciproco, tale da mettere a disposizione, con generosità, tempo e risorse per trovare la tecnica, o meglio, un sistema tecnico creativo.
Mentre vedevo la sua mostra di sculture a Zurigo, mi resi conto che mi osservava da dietro i suoi occhiali come per studiare le mie reazioni, con uno sguardo che ritrovai, in seguito, ad ogni occasione: “…Valter cosa possiamo fare…?”. “…George vieni a Roma e troviamo la soluzione…”.
George Segal è l’artista che più di altri ci ha portato in un mondo astratto, metafisico, permeato di una sottile fantascienza, con i suoi silenzi così perentori, testimoni di chi sa quale catastrofe.
Solo dopo averlo conosciuto a fondo, ci siamo resi conto della grande sofferenza che riusciva a trasferire ai suoi personaggi, emblemi della sua naturale e semplice poesia. La parola “semplice”, per Segal, era la base strutturale della sua vita, del suo modo d’essere, d’apparire, di creare e, in assoluto del suo modo di vivere. Con questa premessa si è potuta realizzare una vera fantastica esperienza nel mondo dell’incisione, così spontanea e senza alcun calcolo, attendendo l’attimo creativo solo sapendo che sarebbe giunto in funzione della soluzione tecnica appropriata.
L’occasione fu l’invito a Roma per valutare la possibilità di produrre in rilievo, in carta, alcuni bassorilievi tipici di George che, infatti, potevano essere eseguiti, come del resto avvenne per il soggetto “Female torso with necklace”del ’75 e per la serie successiva per il Metropolitan Museum di New York.
Questa esperienza fu solo un pretesto per conoscerci ed è da ritenersi un virtuosismo tecnico che non accontentò né noi, né l’artista.
Arrivò, ospite all’Ara Coeli, con la moglie Helen e la figlia Rena. Superato l’entusiasmo del primo impatto, per la qualità dell’immagine che avevamo sperimentato, ci rendemmo conto che doveva nascere qualcosa di nuovo, tipicamente grafico, ma non sapevamo cosa…
Fu la semplicità, ancora una volta, a risolvere il problema.
La cosa mi accadde nel dormi-veglia: stavo focalizzando nella mia mente l’intervento che avevo visto e vissuto quando Eleonora ed io eravamo stati i modelli per un bassorilievo di Segal che ci rappresentava. Quella seduta mi aveva posto tanto vicino al momento creativo, da capire la meccanica dell’evento, dove iniziava e finiva e quanto era stato importante il momento tecnico e quello creativo.
Per Segal il calco è come il marmo per Michelangelo che vedeva le forme umane già nel pezzo estratto dalla cava che poi avrebbe modellato.
Suggerii a George di utilizzare noi come modelli e di calcarci sulle lastre, utilizzando il corpo umano come era per lui d’uso nella scultura, e poi intervenire sulle lastre di rame per negare o per esaltare quelle parti e forme tipicamente sue.
Dopo la prima lastra non ci fu più nulla da aggiungere; avuto il timone nelle mani, non l’ha più lasciato fino all’ultimo bon à tirer. Il risultato fu che in questi fondi stracolmi di ombra non c’eravamo più noi modelli, ma solo George con i suoi incubi e i suoi silenzi.
Così nacque la serie dei “Blue jeans”1974.
Una cosa che ci meravigliò moltissimo, abitando nella stessa casa per molti giorni, fu di vedere la famiglia Segal che viveva la giornata in tutti i suoi tempi, sempre insieme, come in una continua processione. Esattamente come i gruppi delle sue sculture che condividono solo lo spazio che occupano, in un continuo silenzio, con una comunicazione come di sguardi ciechi.
Circa dieci anni dopo, con l’apertura della Stamperia di New York, visitando Segal nel suo studio nel New Jersey, ci accorgemmo che, in un angolo di una parete, era stato fermato con due puntine uno struggente ritratto a matita così caratteriale da non avere dubbi che fosse di George. Ce ne fece vedere altri che confermavano una vera produzione mai mostrata, perché molto intima e gelosamente nascosta.
Non ci volle molto per convincerlo a fare una ricerca che potesse esaltare quella grafia, così adatta ad essere realizzata in incisione: acquaforte, acquatinta, puntasecca, cera molle.
Per la prima volta, nel nostro studio di New York, abbiamo vissuto gran parte della giornata soli con George. Arrivava ogni mattina dalla sua casa nel New Jersey con il bus e ripartiva nel tardo pomeriggio, dopo aver lavorato sulle lastre tutto il giorno. Riusciva ad accumulare una grande tensione che trasferiva, fortemente, anche su di noi. Il risultato era sempre un’incognita perché per la prima volta usava alcune tecniche dell’incisione; le usava, in ogni caso, alla sera, poi doveva rientrare nel suo nucleo familiare, come per ricaricarsi.
La prima prova non fu esaltante, anzi nella sua rigidità e freddezza, ci portò quasi a pensare che avevamo percorso una strada pericolosa ma, un intervento magico di Eleonora, effettuato con un tocco di colore, portò il valore dell’immagine di “Helen” in uno spazio rinascimentale, colmo di nuvole tempestose, in un cyber-spazio vissuto solo dallo sgomento del mondo Ebraico perseguitato e sparso.
Giacomo Manzù
Cesare Brandi, come ho scritto precedentemente, fu certamente un grande punto di riferimento nel nostro affaccio verso la contemporaneità. Spesso il suo atteggiamento, all’apparenza semplice, sottintendeva non solo stima ed amicizia verso gli artisti a cui dava credito. Nel caso di Manzù, la consapevolezza di avere di fronte un personaggio genuino, lo stimolava a dedicarsi con maggiore attenzione. Ciò gli permetteva di scoprire le più sottili sfumature psicologiche, legandole o separandole dalle opere che l’artista creava. Riusciva a cogliere in ognuna gli aspetti positivi e geniali.
Cesare Brandi, dopo una mostra di Graham Sutherland alla quale fu presente, mi disse che era il momento di prevedere una collaborazione, anche se difficile, con Giacomo Manzù.
La sua presentazione ebbe l’effetto desiderato. Pochissime parole e subito al lavoro. La semplicità della tecnica doveva essere la base di lavoro in quanto la mano abile e geniale dell’artista era sufficiente a sostenere qualunque spazio volesse occupare, con il suo segno: essenziale e irripetibile. Noi non potevamo far altro che esaltare questa fluidità, avendo solo una grande cura ad acidare questo segno, sapendo che era la struttura portante dell’opera che stava nascendo.
Quanto venne aggiunto per arricchire l’immagine servì a portare una luce quasi neutra, anche se intervenivano dei colori di per sé evidenti, ma incapaci a distrarre la qualità e la forza del suo segno inciso in acquaforte.
All’oggetto “lastra di rame”, Manzù era strettamente legato e, conoscendone l’importanza, ne esigeva il controllo, sino alla fine della tiratura e poi, dopo la firma, con un “rito sacrificale”, la distruggeva sotto i nostri occhi: “…dovevano sopravvivere solo i figli migliori… i fogli generati!”.
Un giorno Cesare Brandi venne a trovare Manzù ad Ardea, con il pretesto di vedere finalmente le prime prove del lavoro. Lo volle fare in quel contesto perché era curioso di vedere una delle ultime sculture che erano state fuse da pochi giorni.
Anche se, per gli artisti in generale, le opere sono tutte figlie, quando una di queste ha una nota in più, ce se ne accorge ed il consenso di Brandi non tardò a confermare il suo intuito. “Modella su sedia”, che ci trovammo ad osservare, fece dire a Cesare Brandi una sola cosa: “Fidia”.
Per un solo attimo pensai volesse essere un complimento, ma immediatamente mi fece avvicinare e mi mostrò il volume quasi sproporzionato della coscia della modella che sosteneva il peso del corpo a contatto con la sedia. Disse: “Vedi. Come Fidia, Manzù pensa all’uomo che guarda il soggetto e non al soggetto bello in sé”. E aggiungendo, senza farsi sentire dall’artista: “è qui che vedi un genio! Guarda come cambia l’opera girandogli intorno, l’elemento, che visto da vicino sembra sproporzionato, fa sì che tutta l’opera a una certa distanza ne goda e, per chi avrà l’opportunità di rivederla, sarà ogni volta una nuova ed enigmatica lettura”.
Lo studio di New York
Molte volte ho parlato dello studio di New York e, quindi, forse è arrivato il momento di spiegarne l’origine, perché è stata una decisione fondamentale per la continuità della stamperia.
In Italia, negli anni ’70, il clima politico ed economico era difficile. Si era arrestato completamente il flusso abituale degli artisti americani che ogni anno venivano in vacanza a godere del Bel Paese. Perdevamo così delle splendide opportunità di lavoro che per anni avevamo potuto cogliere.
Già dal ’74 cercavamo soluzioni per approntare una base per una stamperia a New York che fosse così una presenza fisica. Ero certo che in quella città, sapendoci dei loro, ci avrebbero accettato favorevolmente.
Arnaldo Pomodoro mi diede una splendida opportunità. Era stato invitato da più Università a fare corsi durante l’anno, come è d’uso in America. Per lui in quel momento era necessario avere uno studio a New York. Trovò, tramite alcuni amici artisti, un grande loft in Soho, bello ma troppo grande per lui.
Mi chiese se volevamo prenderlo insieme e la mia risposta, senza neanche averlo mai visto, conoscendo Arnaldo, fu entusiasta.
Prima di definire l’accordo con la Coop. Broome Street, proprietaria dello stabile, Arnaldo ebbe l’incarico ufficiale di insegnare per alcuni anni non più a New York ma a San Francisco. Con grande rammarico mi chiese se poteva rinunciare alla sua parte. Accettai di buon grado non volendo assolutamente perdere l’occasione di entrare in quella cooperativa di Artisti dove c’era un’enorme lista d’attesa.
Firmai gli accordi direttamente dall’Italia. Sapevo solo che si trattava di un palazzo del 1848, il “Silk Building”, nato come una fabbrica dove si lavorava la seta. Mi era stato assegnato il quarto piano, ma lì non c’erano problemi per sostenere il peso delle macchine che avremmo dovuto installare.
Credo che il giorno in cui vidi per la prima volta il Silk Building rimasi senza fiato.
Un palazzo splendido che, seppi solo dopo, era monumento nazionale. Severissimo nei suoi 14 piani, sotto un tetto di rame ossidato dal tempo che conteneva e compensava, con la sua discreta invadenza, le eccessive ripetitività architettoniche della facciata.
Era diverso da tutti i loft che avevo visto negli anni a New York. Normalmente, nei loft, l’unica cosa positiva sono i grandi spazi, sacrificando spesso la luminosità con piccole e rare finestre, non certo concepite come prese di luce o per affacciarsi.
Il nostro studio aveva un gran numero di finestre, luminosissime; la più piccola era di due metri per due e da lì potevi vedere il traffico di Broadway scorrere sotto di te. La cosa ancor più sorprendente era l’orientamento: nord-est, il massimo per uno studio d’artista.
La cosa che mi meravigliò fu che la qualità estetica degli esterni non si ripeteva all’interno. Si presentavano invece anonime pareti con infissi grondanti di vernici sovrapposte e pavimenti di legno sgangherati. La parte servizi era paragonabile ad un gabinetto pubblico. La cosa invece esaltante erano gli spazi, anzi lo spazio, un enorme parallelepipedo pieno di luce che si prestava generosamente ad ogni possibile realizzazione.
Prima di fare qualunque progetto incominciammo a frequentare lo studio a tutte le ore del giorno; ci dormimmo anche un paio di notti, un po’ accampati ma soddisfatti. Ci rendemmo conto fisicamente del fascino violento che questa città, sempre viva 24 ore al giorno, aveva su di noi.
Il palazzo stesso, in quella fabbrica incessante di rumori, partecipava al grande concerto metropolitano, insolito per le nostre orecchie, che veniva da impianti a vapore per il riscaldamento.
Il rumore più lancinante era quello delle sirene. I carri dei pompieri, che partivano a tutta velocità da Broome Street ed erano diretti verso ogni parte della città quando attraversavano Broadway, proprio sotto di noi, rallentavano, sparando a tutto volume quel suono così penetrante, facendoci immaginare situazioni catastrofiche.
Iniziammo i lavori con una prima impresa, poi con varie altre che si alternarono per mesi, per non finire i lavori come noi li avevamo, con amore, pensati e disegnati nei dettagli. Per riuscire a terminare, assunsi un marinaio caraibico di Granada, che avevo conosciuto in Turchia, imbarcato su una vecchissima imbarcazione greca, di proprietà di anziani Italiani.
Il buon Anthony godeva della massima fiducia, in quanto era capace di tutto, dalla falegnameria, all’idraulica, all’elettricità. Faceva tutto con grande perizia e responsabilità.
Con l’aiuto di Anthony finalmente entrammo nello studio di New York, dove rimase come mio assistente.
La cosa più preoccupante fu l’installazione del grande Torchio che, disegnato e costruito in Italia, il più leggero possibile, raggiungeva comunque le tre tonnellate.
Trovammo un’impresa specializzata in trasporti di questo tipo, che pensò ad organizzare le cose burocratiche e amministrative necessarie in quell’area dove il traffico non ha soste e condiziona ogni operazione sull’isola.
Il traffico fu fermato su Broadway e Broome alle 9.00 e deviato per due ore nelle vie parallele da vigili che misero transenne e segnalazioni appropriate. Immediatamente dopo arrivò l’automezzo con installata una gru enorme. Non avrei mai immaginato che avrebbero infilato un torchio di tre tonnellate, con una gru, da una delle finestre, al quarto piano.
Il torchio entrò e, come per incanto, quando salii, lo trovai posizionato come previsto. Sembrava facesse parte di quello spazio, nato come luogo di lavoro più di cent’anni prima.
Tutto il palazzo partecipò con interesse all’operazione e alla fine festeggiammo.
Guardando dall’esterno, qualche giorno dopo, mi resi conto quanta energia era stata necessaria per poter realizzare quella fantasiosa impresa.
Operazione partita da uno studio romano alle Terme di Caracalla, ora si collocava nel centro di Manhattan. Era caduta come un meteorite, quasi per caso, e veniva accettata, senza mezzi termini, come una logica conseguenza.
Per molto tempo, durante la notte, aprendo gli occhi, mi domandavo dove mi trovassi, ed ogni volta ero sorpreso di stare in quel luogo tutto nostro; guardavo Eleonora che dormiva di fianco a me serena, protetta da quelle mura, in quell’immenso agglomerato eterogeneo così complesso e diverso per noi.
Per la prima volta in tanti anni in cui si veniva a New York, proprio e solo lì, ci rendemmo inconsciamente conto di essere in uno spazio amico, in quella città così aggressiva.
Pierre Alechinsky volle essere il primo artista a lavorare a New York. Aveva trovato da poco tempo uno studio ad Up Town, e questa fu una splendida coincidenza che sfruttammo.
Pierre pensò ad un trittico molto newyorkese: “Soleil noir”. Tre grandi immagini intense e severe, nate da lastre incise fino allo spasimo, come voler scavare con le unghie nel basalto, basalto in cui si fonda questa città. Poi non rimane che cercare il sole, andandogli incontro, ma socchiudendo gli occhi fino a vederne il nero.
Lavorare con Pierre, che sapeva chiaramente quale era il percorso che si doveva seguire, era il modo migliore per avviare lo studio su una strada positiva. L’unica cosa da verificare era l’efficienza del torchio che non attendeva altro. Con la sua portata massima di un metro e mezzo di luce per quattro metri di lunghezza, non temeva certo una lastra di Pierre: un metro per un metro! Lui la stampò, già al primo colpo, in modo mirabile.
Walasse Ting
Mentre si lavorava con Pierre, la cosa del tutto strana fu di avere accanto a noi una presenza continua. Per tutto il giorno e per tutto il tempo, stava con noi un caro amico di Pierre: Walasse Ting, artista cinese che viveva a New York da molti anni, dopo essersi trasferito da Parigi dove aveva convissuto in una comune con Pierre e Sam Francis negli anni ’50.
A New York, come pittore, aveva ottenuto alcuni consensi ma il vero mercato lo aveva trovato in Olanda. Lì finalmente aveva trovato il successo che attendeva e che gli diede una bella autonomia finanziaria mai raggiunta prima.
In quel momento Walasse si era molto affidato all’amicizia di Pierre da quando aveva perduto sua moglie, dopo una lunga e sofferta malattia e il mio studio finì con l’essere per lui un luogo meditativo dove passare la giornata. Mai accennò a voler realizzare alcuna grafica con noi.
Fu Pierre, un paio d’anni dopo, quando ormai Ting era uscito dalla depressione, a fare in modo che l’amico affrontasse il mondo dell’incisione. Riuscimmo a realizzare una serie di acquetinte dove la freschezza e la fluidità del suo segno calligrafico permise al colore di distruggerne l’importanza e creare un mondo impressionista immaginario.
Qui Eleonora, ancora una volta, fu un Jolly, un sostegno mirabile, in quanto ci aiutò a risolvere la difficoltà tecnica di ottenere, con un numero ristretto di lastre, un alto numero di colori. Così diede la possibilità di avere quella freschezza ed immediatezza necessaria all’artista con un risultato, per così dire, illuminante.
Henry Moore
In primavera rientrammo in Italia: obbligati da un progetto che avevamo avviato molti anni addietro con Henry Moore. La cosa non era stata semplice. Lo avevamo invitato più volte a Roma, anche con il grande aiuto che ci diede l’amico Julio Lafuente, ma succedeva sempre qualcosa d’imprevedibile che spostava l’incontro all’anno successivo.
Finalmente, durante l’estate, ebbi l’idea di organizzare uno studio a Pietrasanta, vicino alla sua abitazione estiva. Qui, da trent’anni, Moore era solito passare circa tre mesi con lo scopo “primo” di lavorare il marmo in un laboratorio tra i più antichi e seri della Versilia.
Impiantai così il nostro studio presso la “Cooperativa Versiliese”, specializzata anch’essa nelle cave e nella lavorazione del marmo. L’amico proprietario era entusiasta, solo all’idea, di poter conoscere ed ospitare, attraverso noi, il grande scultore.
Fu messo a nostra disposizione un grande spazio, molto semplice, nel quale montammo il torchio che avevamo costruito contemporaneamente a quello spedito in America. Lo avevamo studiato appositamente per essere montato con facilità presso gli studi d’artista, e completammo l’installazione con tutta l’attrezzatura necessaria alla stampa.
L’esperienza di lavoro che avevamo avuto con gli artisti inglesi Victor Pasmore e Graham Sutherland ci aiutò moltissimo perché Henry Moore, pur frequentando l’Italia ininterrottamente dal dopoguerra, non era stato toccato minimamente nel suo modo d’essere e guardava tutto ciò che avveniva intorno, ogni volta con meraviglia, perché avvenivano fatti che uscivano dai suoi schemi.Henry Moore aveva, in passato, lavorato molto in acquaforte con delle splendide piccole incisioni che seguivano, in qualche modo, i suoi sketch, usandole probabilmente per incidere nella sua memoria e per riprendere, dalle stesse, sensazioni utili alla lettura delle sue sculture. Andava in cerca di una ambientazione che, sulla carta, trovava più facilmente.
Non era mai entrato nel merito della stampa come media concreto a cui affidarsi e per sentire che il tempo che dedicava alla superficie del rame gli sarebbe ritornato con tutta la forza che normalmente sapeva di ottenere dalla pietra o dal bronzo.
Quest’uomo, più che ottantenne, si applicò con un entusiasmo e una meticolosità incredibile, al punto che se pensavamo, all’inizio, di fare una semplice sperimentazione, venivamo invece coinvolti in una serie complessa di lastre che crescevano in quello spazio, al di là di ogni nostra immaginazione.
Aveva immediatamente capito la qualità dell’acquatinta e la definì, davanti ad una sua prima stampa: un nero con la sua ombra . Fummo meravigliati perché, con tanti artisti che avevano sperimentato questa tecnica, nessuno mai l’aveva descritta con tanta precisione.
Henry Moore aveva notato che, in base alla luce e cambiando il punto di vista, il nero si modificava fortemente, l’immagine acquistava valori di profondità assolutamente diversi, quasi macro tridimensionali.
Per esaltare questo effetto, pensai di portare l’artista ad utilizzare anche la puntasecca1, tecnica con la quale le sue intense figure potevano fondersi fino al bianco della carta, assorbendo al suo interno le forme fortemente plastiche, così da dare un effetto di “pura luce”.
Lo sforzo per poter affrontare con la puntasecca lastre di quella dimensione poteva preoccupare anche un giovane. Non ci fu un solo istante in cui Henry Moore interrompesse un segno iniziato e, quando si fermava, era solo per concentrarsi e ripartire, rimanendo però nei suoi orari, dalle 9 alle12 del mattino e dalle 4 alle 6 di pomeriggio, con una meticolosità studentesca.
Un giorno, Moore, sua moglie e noi due andammo a trovare lo scultore Pietro Cascella nel castello che aveva da poco restaurato e nel quale si era insediato dopo il lungo restauro. Si trattava realmente di uno splendido maniero affacciato su una stretta vallata da cui dominava i percorsi obbligati.
In realtà, Cascella, scegliendo questo sito, voleva solo “isolarsi” sotto le sue amate Apuane, da cui aveva estratto più volte le sue “pietre” dando vita al marmo, realizzando opere che vivono in mezzo a noi con la nostra quotidianità in molte città del pianeta.
Questo sito era sicuramente, per Cascella, il solo riconoscimento accettato con il successo della sua professione di scultore, un concreto monumento a tutti i propri sforzi e sacrifici.
stupore quasi imbarazzato di Moore non tardò a manifestarsi con tocchi di gomito, cenni di sorpresa alla moglie e a noi. Era quasi incredulo perché, pur nominato Baronetto dalla sua Regina, in quel momento si sentiva vassallo.
L’ospitalità di Pietro, la qualità genuina e raffinata messa generosamente in pratica, nelle ore che seguirono, rilassarono la coppia inglese che forse comprese quanto un artista italiano possa, quando lo vuole intensamente.
Per Cascella quel luogo rappresentava la sua “Pietra Miliare” a cui, chissà da quanto tempo, aspirava. Moore, la sua casa cantonale, l’aveva solo riverniciata e l’abitava in un silenzio di pineta mediterranea, che già per se stessa appaga un anglosassone.
I risultati della magnifica esperienza di Pietrasanta furono evidenti e concreti, al punto che Moore, per gratitudine nei nostri confronti, accettò la richiesta di inaugurare la nostra stamperia e casa, alle Terme di Caracalla, con una sua mostra di sculture nel nostro giardino.
Oltre alle grandi opere ci diede la possibilità di esporre nella Stamperia le lastre e varie prove delle incisioni. Allo stesso tempo, nelle nostre gallerie di Roma e Milano, presentammo tutto il ciclo realizzato a Pietrasanta. con alcune piccole sculture.
La Fondazione di Henry Moore pose molte difficoltà all’idea della mostra, ma l’Artista si impose, permettendo di anticipare di sei mesi la spedizione di cinque grandissime sculture che sarebbero state successivamente esposte a Madrid.
Così abbiamo potuto organizzare lo splendido avvenimento, nella totale indifferenza della Cultura Ufficiale Romana. Improvvisamente, si trovarono Henry Moore a Roma, a disposizione del pubblico che ne fu entusiasta.
Io credo che la qualità dell’avvenimento, per le opere esposte, e per il fascino dell’ambiente che le accoglieva pieno di storia romana, ci riportò, magicamente, in uno splendido clima Rinascimentale.
Le sculture di Henry Moore, pur grandi, rappresentano la concretezza dell’uomo, ma allo stesso tempo compiono un atto di modestia rispetto alla natura e l’ambiente che le circonda. Roma.
Per tre mesi la casa, la stamperia, il giardino e tutti noi fummo totalmente coinvolti.
I ragazzi della stamperia
A questo punto, voglio chiarire che il lavoro fatto in tanti anni, che in parte sto cercando di descrivere in queste mie righe, non sottolinea l’importanza del contributo dei ragazzi (tutti studenti), che man mano sono passati dalla stamperia, per brevi o lunghi periodi, e alcuni per tutta la loro vita professionale.
Nello scrivere, ho utilizzato un focus, il più stretto possibile, che rappresentasse il mio stato d’animo.
Quanto è uscito dai torchi della Stamperia è il frutto di tante piccole e grandi partecipazioni che, solo nel loro insieme, hanno consentito di fissare regole di comportamento e rigore.
Questo è quello che hanno imparato e vissuto all’interno della stamperia, e sono in grado di testimoniare.
Franco Cioppi, sicuramente, è stato il promotore; senza il suo amore per la grafica non avrei nulla da scrivere.
Giancarlo Iacomucci, cugino di Franco ed Eleonora, uscito dalla “Scuola del Libro” di Urbino, ha sofferto con noi la sperimentazione della tecnica litografica. Il suo modo di essere razionale e preciso gli ha permesso di approfondire la litografia e utilizzarla in modo esemplare, anche per il suo lavoro di pittore al quale si è dedicato da anni a tempo pieno. Ne approfitto per augurargli tanta ispirazione e poesia.
Dino Depetro, Raffaele D’Orsogna e Angelo Buscema, freschi d’Accademia, mi furono suggeriti dal loro Professore Toti Scialoja, magnifico artista e docente di grande cultura che, tuttavia, ha cercato e affrontato, senza mai risolverlo, il problematico approccio all’incisione. Per Toti il fatto di dover lavorare sulla matrice al “contrario”, rispetto al suo modo di fare pittura, falsava il suo gesto al punto da non poterlo accettare, perché al momento della stampa l’immagine risultava ribaltata.
Dino, ragazzo introverso e taciturno, era climaticamente siciliano. Uso questo termine perché, dopo una prima esperienza “invernale” a New York per aiutarci ad avviare lo studio, fu talmente traumatizzato dal freddo, che mi chiese di esonerarlo, in futuro, da un altro viaggio in quella città. Per il resto, aveva tutte le migliori doti del siciliano: intuizione, caparbietà, riservatezza e altre doti personali.
Dino Depetro, improvvisamente è mancato, lasciando un gran vuoto in chi ha vissuto e vive la Stamperia, e in chi ha avuto la fortuna di conoscerlo. Aggiungo solo che, in molti casi, Dino è stato indispensabile, ma in uno in particolare: la lunga serie di incisioni di Renato Guttuso. Dino, con Eleonora, contribuirono, generosamente, dando molto di loro per semplificare e rendere possibile il coinvolgimento dell’artista.
Raffaele D’Orsogna, per il suo carattere, non ha mai voluto porsi in primo piano. Era molto legato a Dino, facendogli da spalla, quasi timidamente, ma la sua radice abruzzese ha contribuito col tempo a rafforzare tutto il gruppo di lavoro che col tempo si ampliava, mettendo in condizione, anche chi non aveva avuto una precisa preparazione culturale, di inserirsi nelle varie fasi di lavoro.
La sua disponibilità a seguirci era totale. Eleonora ed io ricordiamo con piacere tutte le occasioni di viaggio e di lavoro trascorse insieme. Difficoltà e disagi venivano accettate con entusiasmo.
Angelo Buscema, anch’esso siciliano, entrò come gli altri, iniziando da zero, ma con uno spirito diverso: il modo di porsi, il modo di osservare, il suo atteggiamento davano un’impressione di sufficienza e questo rivelava la sua voglia di apprendere il più rapidamente possibile. Aveva, probabilmente, un desiderio innato: fare quel lavoro per poi dedicarsi all’insegnamento. Ma anche di avere una stamperia nel paese di origine, con progetti che mi auguro si siano realizzati.
Adriano Corazzi si è guadagnata la professione per la sua grande disponibilità e tenacia. Era naturalmente dinamico, anche se talvolta troppo dinamico. Doti che mancavano sicuramente a tutti gli altri. C’era poi in lui una modestia istintiva che gli permetteva di adattarsi, per esempio accettando serenamente i fastidi della ripetitività tipica necessaria per la stampa dell’edizione.
Nel 1967-68 Burri volle affrontare un tema a lui caro, “le lettere”, che nasceva, anni addietro, da una corrispondenza pittorica avuta con Minsa.
Le immagini di una semplicità assoluta riflettevano il rigore e la sintesi che stava avvenendo nella sua pittura in quel momento. La tecnica ideale, per la corposità e l’intensità dei colori era la serigrafia, facilmente applicabile ai soggetti previsti.
Per le prime prove ci appoggiammo ad un serigrafo commerciale. Sfruttammo la sua esperienza, fino a poter realizzare la cartella delle “Lettere”. Il giovane Piero Feliciotti, nato serigrafo, si adattò nella stamperia anche nelle altre tecniche, perché passò un lungo periodo prima di riprendere la serigrafia.
Alcuni anni dopo Eleonora e Piero furono sicuramente gli artefici di quella lunga straordinaria serie di serigrafie, “Temperine”, che Burri alimentò per circa dieci anni, sfruttandola come ricerca per i suoi cicli pittorici che da qui nacquero: partendo dalla serie del “sestante”, ai grandissimi “Cellotex” visibili, in gran numero, nella Fondazione Burri a Città di Castello.
Vigna Antoniniana Stamperia d’Arte
Il trasferimento alle Terme di Caracalla non fu un cambiamento voluto ma una necessità. Il restauro strutturale, conservativo e completo, del palazzo dell’Ara Coeli, ci obbligò a considerare “addirittura” di abbandonare l’attività. Sembrava impossibile trovare un’altra sede con le caratteristiche a cui eravamo abituati.
A distanza di tempo, mi rendo conto del danno che ci era stato fatto e il modo prepotente con cui era stata messa in atto nei nostri confronti, una vera cattiveria, non del tutto spiegabile a quel tempo, ma oggi comprensibile perché stranamente apparvero, dietro la trattativa, personaggi ed interpreti che abbiamo ritrovato in anni recenti, gli stessi responsabili di disastri economico-finanziari che hanno coinvolto, nei loro crack, migliaia di investitori.
Fu un amico fraterno, l’architetto Edoardo Monaco che, al rientro da una visita allo studio di Capogrossi, pensò di passare dalle Terme di Caracalla per mostrarci un casale abbandonato. Un suo conoscente lo aveva in affitto da tempo, senza riuscire a ottenere i permessi per gli interventi di ristrutturazione.
Scoprimmo ciò che divenne poi la nostra meravigliosa sede di lavoro, ma soprattutto di vita. Un casale inserito nel parco delle Terme di Caracalla, nato all’inizio del ’400, pronto solo a cadere da un momento all’altro, totalmente abbandonato da circa un decennio.
Ed ecco i problemi!!!
Provate ad immaginare solo di avere un manufatto di due piani, lungo sessanta metri con una larghezza di dodici, che si sta aprendo a metà, sostenuto da una serie di contrafforti posti ad inizio ’800 per rafforzare e tenere insieme il fabbricato. Non potevano prevedere che il traffico e l’incuria, successivamente, l’avrebbe minato al punto da renderlo veramente pericoloso ed inagibile. Il tutto viveva in un giardino di circa un ettaro, completamente abbandonato.
Confinavamo a sud con il vivaio EuroGarden, a nord con il giardino dei Frati Minori Conventuali, a ovest con un bosco incredibilmente abbandonato e con una vegetazione così abbondante da riuscire ad abbattere parzialmente anche il muro di cinta da cui ci separava. Ad est ci affacciavamo sulle Terme di Caracalla, zona archeologica utilizzata come teatro all’aperto durante l’estate.
Alla prima verifica presso gli uffici competenti, mi resi conto delle difficoltà per superare il netto rifiuto da parte dei responsabili del Comune di Roma di trattare l’argomento, a loro conosciuto, e a suo tempo definito impraticabile.
Mi sembrò tutto talmente assurdo da pensare di rivolgermi a Giulio Carlo Argan, Sindaco di Roma, nostro caro amico.
Il grande critico ci aveva visto nascere, conosceva perfettamente il nostro lavoro, in quanto, già nel ’74, aveva potuto ammirare la grande mostra della “Donazione” della Stamperia 2RC alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, che Palma Bucarelli allora direttrice aveva voluto esporre in modo esemplare.
Argan, che con il suo “sguardo critico” era riuscito, per anni, a leggere e descrivere in modo puntuale e penetrante gli aspetti fondamentali della nostra attività, quando fu messo al corrente del progetto, chiaramente rifiutò perché la carica di Sindaco gli impediva, per la sua onestà e coerenza, di potermi aiutare.
Così fece e ci fu un silenzio di due mesi. Tutti i miei sforzi per altre strade si dimostrarono inutili, al punto che pensammo di trasferirci a Venezia, dove mi veniva offerto di attivare una nuova stamperia.
Eravamo ancora innamorati di Roma! Questa città non poteva uscire dal nostro cuore…
Una mattina mi chiamò Argan dicendomi che, per ragioni di salute, aveva dato le dimissioni da Sindaco, e da quel momento ci proponeva di occuparsi del nostro progetto.
Passarono pochi giorni ed il grande Critico si presentò alla Stamperia dell’Ara Coeli con la Commissione Edilizia del Comune di Roma al completo. Furono così in grado di vedere cos’era una stamperia d’arte in piena attività e prendere decisioni che potevano sbloccare un veto che, per non rischiare una speculazione, aveva paralizzato per anni qualunque possibile evoluzione e progetto.
Lo stesso giorno ci trasferimmo tutti alle Terme di Caracalla.
In quel luogo, con l’assistenza di Edoardo Monaco, presentammo il progetto di ristrutturazione, dimostrando che quel manufatto fatiscente poteva diventare una sede esemplare, senza turbare la qualità del casale.
Era facile: bastava rispettare la sua semplicità.
Non tardò ad arrivare la concessione ed il cambio di destinazione: da granaio-cantina a Stamperia d’Arte.
Anche a distanza di anni, ancora ringrazio l’amico Giulio Carlo Argan per l’aiuto determinante che ha dato modo alla Stamperia di sopravvivere, per la solidarietà che ci ha mostrato e per le ore che abbiamo trascorso in sua compagnia.
I miei figli lo ricordano per la simpatia e per la grande capacità che aveva di comunicare, in modo del tutto semplice, anche quando ancora erano bambini, nozioni ed emozioni che sono rimaste nella loro memoria.
Vivere il cantiere con rispetto
La prima cosa da fare era di risanare i muri perimetrali, per la maggior parte intrisi d’acqua e marci. Allo stesso tempo, bisognava mettere in sicurezza tutta la struttura con una serie di tiranti in acciaio che ingabbiassero i solai, alleggerendo le pareti perimetrali per riportare i vari equilibri alla normalità.
Nel frattempo, si rifece completamente il tetto, riparando, ed in certi casi sostituendo, le capriate curve e logore. Sul tetto applicammo una coibentazione formidabile, per l’epoca, che rese il tutto ermetico e insonorizzato dal mondo esterno, dando la sensazione di entrare in un clima generoso e protettivo.
L’Architetto Edoardo Monaco con il suo socio Alessandro Martini e con il suo staff al completo, furono per noi un apporto professionale impagabile.
Eleonora aveva progettato, in scala 1/100, tutto il giardino, arrivando a definire, in tutti i dettagli, i vari spostamenti di piante e nuovi impianti, permettendo di avanzare parallelamente al restauro del casale, sfruttando l’estate, l’autunno e l’inverno.
In primavera eravamo pronti al grande passo: insediarci nella nuova casa-stamperia con un giardino che esplodeva. La inaugurammo con la mostra di Henry Moore!
Tutto quel verde intorno cambiò la nostra vita, ci fece apprezzare Roma in modo nuovo perché le stagioni e il clima variavano continuamente il nostro vivere quotidiano.
Ci rendemmo conto che la nostra esperienza di mare ci aiutava moltissimo per prendere decisioni estemporanee che, in quell’ambito, erano una vera necessità: voleva dire essere presenti 24 ore su 24.
Le piante tropicali solcavano in aereo gli oceani e si insediavano nell’ambiente romano come fossero sempre state lì. Protette in inverno da una serra adeguata che le riparava dalle rare gelate romane… riuscimmo a mangiare ananas gustosi coltivati da Eleonora.
Sapevamo d’avere una cantina immensa, ma non immaginavamo facesse parte delle Catacombe. Aveva molte ramificazioni precarie e pericolose, al punto da frenare la nostra curiosità. All’interno, la temperatura era costantemente a 14 gradi, estate e inverno.
Era l’ultima curiosa attrazione con la quale liquidavamo le visite che si prolungavano oltre misura.
Oltre agli artisti che venivano nella nostra casa ospiti per lunghi periodi, non c’era giorno in cui non ci fossereo visite, anche senza preavviso. Questo voleva dire che la nostra tavola a colazione e a cena poteva variare in modo imprevedibile. Eleonora, in quella casa, si era ben organizzata, e si dimostrò una impareggiabile padrona di casa.
Quando ci sedevamo a tavola tutti potevano apprezzare la cura e la qualità del suo cibo. In buona parte dell’anno l’orto ed il frutteto fornivano la nostra cucina, contribuendo, con genuini sapori, a stupire noi stessi e gli ospiti.
Non era facile gestire quel turbinio poco programmabile. Era diventato un punto di riferimento di cui sentivamo solo gli effetti positivi. Quelle visite rendevano attiva e piena di interessi quell’isola per troppo tempo abbandonata.
La magnifica sede creò una coesione molto forte con lo studio di New York, Mentone, Pietrasanta e i vari altri presso gli artisti, diventando il fulcro vitale di tutti noi.
Non esistevano limiti… solo il tempo per realizzarli.
Enzo Cucchi
Enzo Cucchi iniziò già dal ’79 a lavorare con noi, con una serie di litografie su pietra per un’edizione di Peter Bloom dal titolo “Immagine feroce”.
Questa prima esperienza ci permise di conoscere il modus operandi e anche un modus vivendi di un giovane artista che cresceva rapidamente in una corrente turbinosa rispetto al passato.
Finalmente si era formato un gruppo coeso di artisti: “La Transavanguardia” con Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Sandro Chia, Nicola De Maria e Mimmo Paladino che, spinta dallo stimolo incalzante del coraggioso Achille Bonito Oliva, diede un tale impulso all’interesse nazionale da provocare, in un tempo brevissimo, una risonanza ancor maggiore nel resto del mondo.
Fu una sorpresa per noi che avevamo vissuto dal dopoguerra solo scontri e divisioni di gruppi, nati inizialmente con le stesse poetiche e che, in un batter di ciglio, una bandiera divideva più di un oceano.
In generale la Stamperia metteva agli artisti una grande voglia creativa e curiosità, ma per Enzo non era così; lui voleva lavorare con la sua sola poesia.
Ci incontravamo prestissimo la mattina, al “Campo de’ Fiori”, davanti al pescivendolo e da lì ci muovevamo nei dintorni. Enzo cercava di trasferirmi le sue emozioni che andavano man mano evolvendo, fino a diventare una necessità.
Devo dire che i primi incontri furono difficili, perché Enzo usava esprimersi con la fantasia che gli è propria, la stessa con la quale costruisce le sue opere: da un mondo completamente astratto riesce a ricrearne uno reale tutto suo.
Il suo modo di vedere le cose attraverso frasi lontane dalla realtà, improvvisamente diventa comprensibile, reale e concreto. Allora ogni incisione prodotta è una vera apparizione, scaturita durante i laboriosi incontri.
Arrivare alla Stamperia e produrre le lastre necessarie per l’immagine pensata, diventava una semplice routine di liberazione. I miei collaboratori, non avendo vissuto il lungo travaglio dei nostri colloqui, non potevano capire e quasi ci osteggiavano perché, improvvisamente, i pazzi erano diventati due, anzi tre. Anche Eleonora, a cui trasferivo le mie sensazioni, era preparata. Era pronta ad intervenire, a sostenere l’opera che andava nascendo, lì davanti ai loro occhi scettici, senza nessuna indecisione.
Affrontavano lastre di formati impossibili e con tecniche estemporanee, quasi magiche perché mai toccate da pentimenti.
Nacque così “Immagine Oscura”, un’acquatinta inquietante dove, oltre alla totale assenza di luce, si aggiunge, anzi si toglie, anche il silenzio, perché il termine “silenzio”, per questa immagine, non riesce ad esprimere lo sgomento.
Subito dopo affrontammo tre soggetti da un solo titolo: “La lupa di Roma”.
Tre presagi, costruiti con una tecnica complessa anche per noi, perché era tutto ambiguo. Avevamo utilizzato la calcografia con dei rilievi pesantissimi che volutamente venivano negati, sia dalle forme della composizione che dai colori ora stridenti ora neutri. L’acquatinta, l’acquaforte, la puntasecca, i rilievi esasperati, tutte queste diverse tecniche si erano trovate a risolvere problemi di un mondo alchemico molto fuori da canoni logici.
Due anni dopo realizzammo “L’elefante di Giotto”. Altra battaglia in un campo sterminato, pieno zeppo di buio… una sola goccia di luce: “Un elefante” che regge il mondo intero.
Tecnicamente, la profondità dell’acquatinta, sostenuta da una grana sottile di carborundum, ha ottimizzato la concretezza di un paesaggio preistorico, evidenziando, forse per la prima volta, l’esterno, e non l’interno, di una caverna, annullando millenni di storia.
Ci vollero innumerevoli incontri con lunghissime passeggiate lungo gli argini del Tevere, per poi realizzare, secondo me, le due più spontanee e fulminanti opere grafiche pensate da Enzo: “Sparire”.
Quando cominciai a parlare delle dimensioni pensate con i miei collaboratori, ci fu immediatamente la prima reazione: “Ma il rame di questa dimensione non esiste…!”. “Come si fa con l’acquatinta? Come con l’acido? Come…? Come…? Come?”.
Sapevo che per il rame e tutto il resto, volendolo fortemente, si sarebbe trovata la soluzione ma, ancora una volta, mi rendevo conto di dover fare una navigazione in solitario, “troppo lontani dalla riva per goderne la brezza”.
La mia barca aveva già preso il vento dell’entusiasmo, con a bordo sempre e solo Eleonora.
È curioso pensare che, dal primo sguardo sulle lastre stese sul piano di lavoro, dove ancora non esisteva una sola traccia, Cucchi attaccò con pennello e acido, come leggesse un suo racconto. Si trattava di occupare uno spazio dove un piccolo “mondo” si sarebbe depositato, sperando in uno sguardo di Dio.
Nel secondo soggetto, alla vista appare una sola piccolissima creatura che, pur avendo a disposizione l’intera terra, va a cercare altri possibili pianeti.
La tecnica dell’acquatinta, per i due soggetti, fu la linfa vitale.
Le varie sovrapposizioni di grane diverse, i tempi d’acido utili e la spontaneità dei gesti di Enzo completarono questa naturale e magica nascita. Alcuni tocchi di puntasecca per evidenziare il piccolo mondo nella prima incisione. Un’incisiva acquaforte per far nascere la creatura nel secondo soggetto. L’intensità e, al tempo stesso, la trasparenza dell’acquatinta di entrambe, sostenuta da colori fuori dalla realtà, rendono ancora oggi, ai miei occhi: “Sparire”, la più consapevole e lunga follia realizzata con Cucchi.
Con l’Artista continuammo ad affrontare dimensioni e tecniche sempre più complesse, partendo da lontanissimo senza un solo segno, senza un bozzetto, un qualcosa di concreto e visibile da cui partire… nulla.
Grandi voli pindarici con la sua immaginazione ed un solo pazzo, io, pronto ad afferrare, in quel preciso momento, la prima concretezza tecnica proponibile per arrivare a pensare “Uomini”.
Un tema dove l’unica mia perplessità era capire i mezzi utili per risolvere il problema pensato dall’artista per “l’oggetto specchio” nelle mani di un enorme uomo primitivo. Nello specchio sarebbe apparso un paesaggio catturato dall’interno del suo ventre. Dall’alto del cielo, dovevano sprigionarsi alcuni sprazzi di luce come delle piccole magiche meteoriti.
La dimensione, altezza 270×75 cm. di base, dopo i tre metri di “Sparire”, non ci intimidiva. Sapevamo ormai in che modo far nascere “L’uomo fango”, con tutta la sua primitività, ma il tempo per capire “l’oggetto specchio” fu per mesi un vero problema.
Finalmente, durante le nostre lunghe conversazioni, un suggerimento, strano, Enzo me lo diede, riferendosi al colletto del Prete, come se durante la sua infanzia si fosse visto riflesso in quell’oggetto, come fosse stato uno specchio.
Ci riuscimmo applicando un collage di una carta patinata lucida; che sotto la pressione del torchio, catturava, dalla lastra, la forma dello specchio, allo stesso tempo il paesaggio medioevale inciso alla puntasecca dall’Artista.
Credo che solo vedendo l’immagine si può apprezzare la soluzione dello specchio, mentre il balenio dei frammenti luminosi fu risolto da Eleonora ponendo un foglio di carta stagnola dietro ai piccoli e vari buchi posizionati da Enzo in alto, sopra la figura, che rifletteva la luce in modo vibrante come se fossero pietre preziose.
Nel ’90, per la “Scala”, non bastò più conoscere i processi di stampa più evoluti perché, oltre alla terza dimensione, si aggiungeva la mobilità di alcune parti d’immagine: palle naviganti leggere ma concrete, appesantite, in alcune, solo da un paesaggio medioevale cristallino. In altre, lo stesso paesaggio, come annebbiato.
Questa volta, anziché iniziare dalla carta, siamo partiti dalla cellulosa ancora in pasta. Per prima cosa, gonfiammo dei palloncini fino a portarli, in modo solido, a raggiungere la dimensione voluta da Enzo: circa 15 cm. di diametro. Spalmammo sulla loro superficie vari strati di cellulosa fino a raggiungere lo spessore della carta che usavamo normalmente. Allo stesso tempo, su un piccolo torchio, stampavamo la lastra incisa da Enzo in acquaforte sulla stessa cellulosa ancora in pasta. La stessa pasta veniva immediatamente plasmata sopra la palla incompiuta in modo che lo strato di cellulosa si integrasse al punto da diventare un solo corpo.
“E il palloncino…?”. A essiccazione avvenuta, bastò bucarlo dall’esterno con un ago e sfilarlo. Il piccolo buco poi lo utilizzammo per fermare la palla, leggerissima, sulla superficie della stampa, assai complessa, che la ospitava, con altre dieci simili.
Nancy Graves
Danny Berger, dopo aver lavorato per molti anni con noi, alla Galleria 2RC a Roma, ritornò a New York e riprese a dirigere la Mezzanine Gallery, dipartimento del Metropolitan Museum.
Tenendo conto dell’esperienza di stampa che si era fatto per anni, passando nelle sue mani tutta la grafica che avevamo prodotto fino a quel momento, non tardò ad immetterla nel suo circuito, organizzando splendide mostre e presentando le varie stampe che man mano pubblicavamo.
Il Museo stesso propose di stampare per loro conto artisti con i quali avevano rapporti, un’artista di questi fu Nancy Graves.
Nancy Graves, scultrice, conosciuta in particolare nel mondo dei Musei americani attenti alla qualità, molto schiva, assai raffinata, sulle sue come una gatta selvatica fuori dalla tana e grandissima lavoratrice.
Il padre, Antropologo Paleontologo, l’aveva fortemente immessa in uno spazio di fantasia molto complesso e, allo stesso tempo, formativo. Tutta la natura, dalle origini, compreso l’uomo e le sue abitudini, era presente in ogni sua opera, fino a rappresentare oggetti anche utili, come ritrovati e assemblati, togliendoli dal loro utilizzo, come messi in una teca.
Devo ammettere che lavorare con Nancy, avendola con frequenza continua ospite nella nostra casa e studio dell’Ara Coeli, fu un vero piacere perché sapeva organizzarsi e, con umiltà, saggiava la tecnica da me suggerita con totale ottimismo. Praticava per ore, con uno sforzo fisico notevole, che non mi stupiva; avendola vista lavorare nel suo studio di scultrice, sapevo di quanta manualità era capace.
Già con le primissime incisioni i risultati furono evidenti ed entusiasmanti, al punto che con la seconda esperienza, affrontammo una grande dimensione dal titolo: “Paleolinea” 1979. Capii, con quell’incisione, quanto era radicata in lei l’idea delle origini, talmente lontane nel tempo da rappresentarle come un grafito incolore dove rimane l’odore del tempo.
Fu Nancy ad introdurre Eleonora alla botanica tropicale, quando cominciò a regalarle pezzi delle sue amate piante che coltivava nel suo studio di New York.
La sensazione non era che fossero lì per motivi estetici, ma come modelli che lei spesso utilizzava nelle sue composizioni.
Pur avendo lo studio a New York, a due blocchi dal nostro loft, Nancy veniva ogni anno a Roma, dove con Eleonora faceva lunghe passeggiate nel nostro giardino e nel bosco adiacente, e tornavano con semi, foglie e ogni genere di insetti e cose utili alla sua fantasia. Lei era convinta ormai della necessità di utilizzare i due studi di Roma e New York che le davano, oltre alla continuità del lavoro, la sensazione di far parte della nostra famiglia e di godere anche gli aspetti intimi di una amicizia sincera.
Lo stimolo creativo per Nancy partiva da lontano, lontanissimo. Poi l’opera, man mano che cresceva, si arricchiva di elementi precisi, il più delle volte organici, che facevano parte di quella famosa ricerca. Ricerca che non si fermava a oggetti e cose concrete ma spesso a testi, parole simboliche, immagini catturate da libri, da codici e dalla famosa scuola di suo padre.
Le grandi lastre di rame nascevano con un destino certo di dover essere trasportate, o meglio, spedite più volte da New York a Roma e viceversa, perché, pur dedicando giornate intere di lavoro con una metodologia e costanza quasi maniacale, non si riusciva a terminarle in giorni ma, per la loro complessità, in mesi. Il lavoro si riprendeva nella sede successiva, senza lasciare così troppo tempo per completare o avanzare il processo tecnico creativo.
“Stuck, the flies buzzed” 1989, inizia a New York, ma l’Artista sente quasi il bisogno che le sue lastre vadano a Roma, e qui le arricchisce di una infinità di contenuti fortemente greco latini, poi ritornano negli Stati Uniti dove, con Eleonora, Nancy trova i colori e, sulla base delle prime prove, sente il bisogno di aggiunge altri elementi per bilanciare la composizione, non finita.
A questo punto le lastre ritornano a Roma dove finalmente l’opera si completa, aggiungendo un bassorilievo ottenuto con foglie e fiori del nostro giardino.
Riuscimmo a realizzare altre due grandi magnifiche incisioni; sempre nello spirito e nel clima precedentemente descritto, eravamo proiettati a raccogliere, negli anni che sarebbero arrivati, grandi soddisfazioni e, sicuramente, il cammino di Nancy non si sarebbe arrestato.
Solo la sua morte repentina ha interrotto questo nostro magnifico percorso.
Davide, mio figlio che in quegli anni viveva a New York dove frequentava l’università, si era assunto la responsabilità di riprendere con la telecamera gli artisti che lavoravano nello studio.
In quelle riprese ci sono momenti di grande intensità e ricchezza di espressioni di Nancy al lavoro, sorprendenti. Soprattutto le sue pause dopo una febbrile fatica fisica perché per ore usava strumenti dove era necessario mettere forza e tensione.
Il suo sguardo giovane e bello nei primi piani che Davide è riuscito a cogliere, conferma il suo stato d’animo in quei momenti, ed è ciò che rimane nei nostri cuori.
Helen Frankenthaler a New York
Dopo tredici anni dai primi lavori fatti a Roma e dopo continui contatti, senza mai arrivare al concreto, finalmente lo studio di New York rese possibile lavorare con Helen Frankenthaler in un progetto complesso e sicuramente di grande impegno.
Grande impegno per varie ragioni. A New York la cosa era molto diversa perché Helen era sul suo terreno di conquista, consapevole del proprio livello d’artista, in un clima come quello newyorkese dove doveva dimostrare che il suo spazio se l’era guadagnato.
A Roma, invece, si era adattata perché consapevole di vivere in una città dove troppe cose dell’arte erano passate e vissute nel tempo.
Un’altra ragione era che i tempi dovevano essere programmati per un suo metodo di lavoro che non collimava con il nostro.
La soluzione che utilizzai fu un sistema dove Helen poteva lavorare al positivo, su una superficie di rame preparata preventivamente e dove potesse trattare la lastra come in pittura, non pensando minimamente alla tecnica.
Dal suo sguardo, alla prova del primo soggetto che uscì dal torchio, capii il suo consenso e l’affetto che provò in quel momento verso di noi, per averla portata a raggiungere, quasi inconsciamente, un tale risultato.
Il percorso da quel momento andò sempre più in discesa. Anche l’argomento colore, dove Helen non dava un minimo spazio, in quanto era lei, come sempre aveva fatto, che doveva preparare la miscela dell’inchiostro da stampa.
Dopo le prime prove si rese conto che, con Eleonora, avrebbe avuto un grande aiuto. Il risultato finale di stampa del colore dipende da tantissimi fattori: tipo di incisione, profondità del segno, qualità e trasparenza dell’acquatinta, sovrapposizione dei colori e alternanza degli stessi, scarico del colore precedente sul successivo, tipi di carta, differenti pressioni e tante altre cose ancora…
La stampa di quel ciclo, che ci è più cara e ci coinvolge ancora oggi fortemente, è “Broome Street at night”, nata da una delle finestre di Broom dove abitavamo e dove, oltre a vedere lo scorrere perpetuo della “città per eccellenza”, abbiamo potuto godere albe sorprendenti, cieli pieni di vento, di pioggia e neve che arrivava verticale sui vetri, spinta da venti incredibili per intensità e durata.
Quella finestra era la nostra protezione da tutto. Helen l’aveva letta come da un obiettivo, in un clima notturno; in un silenzio ovattato, aveva saputo fissare e cristallizzare bagliori di auto e strani esseri vaganti… sempre soli in questa città “unica”.
Francesco Clemente
Francesco Clemente viveva già da tempo a New York, i suoi passaggi a Roma erano sempre troppo brevi per poter dedicare il tempo necessario ad una prima esperienza con il nostro studio.
Pensò di poter realizzare delle litografie per conto suo, lavorando le lastre nel suo studio di New York e poi, successivamente, spedirle a noi per la stampa. Il progetto non mi interessò e non feci nulla per aiutarlo; mi limitai ad inviare tutti i materiali necessari, e attesi…
Successivamente, fu l’editore tedesco Schelmann che ci chiese di riprendere i contatti con Clemente per fare una grande incisione. L’artista desiderava farla con noi. Fummo felici di questa opportunità, perché nel frattempo avevamo aperto la stamperia a New York, così vicina allo studio di Francesco da poterci andare a piedi. Un’occasione unica che sfruttammo immediatamente.
Lo sguardo di Francesco Clemente è, secondo me, la cosa più evidente di quell’Artista. Non solo in senso fisico, ma ancor più in senso poetico, filosofico e trascendentale. I suoi personaggi, gli elementi che fanno parte delle sue innumerevoli composizioni passano dal suo sguardo ad uno superiore che lo scruta dall’interno e fa volare la sua fantasia in uno spazio senza tempo, in luoghi dove non importa chi sei, al di là delle razze.
Il giorno in cui, nel suo studio, vidi Francesco Clemente utilizzare la tecnica dell’acquerello, mi resi conto con quale concretezza e determinazione controllava la nascita della sua opera. Lì decisi da dove partire.
Il primo lavoro importante fu un’acquaforte, acquatinta e puntasecca per l’editore Schelmann. Probabilmente la scelta del soggetto e la dimensione ci imposero, inizialmente, una ricerca che sfruttammo subito, realizzando con il pretesto di conoscerci, due piccole, fresche acquatinte, due suoi ritratti.
Lo stare a New York, così vicini, ci consentiva praticamente di non avere orari. Francesco poteva presentarsi in qualunque momento, spesso lavoravamo anche di notte, arrivando distrutti al mattino.
La nascita di “Semen” fu un’esperienza scioccante e irripetibile, con un risultato così positivo da annullare gli aspetti negativi che invece fummo costretti a subire durante il percorso tecnico iniziale.
Premetto che l’attrezzatura installata a New York, nello studio, era partita dall’Italia progettata in tutti i particolari per adattarsi allo spazio che, allo stesso tempo, doveva essere stamperia, luogo di rappresentanza, show room, abitazione per noi e contemporaneamente spazio per poter ospitare un artista.
Pareti mobili, veneziane e piante che Eleonora pretese che fossero presenti, facevano da sipari.
Quando si lavorava su lastre di grandi dimensioni tutta l’attrezzatura si espandeva prendendo il massimo dello spazio utile, invadendo spesso anche aree destinate ad altro con vasche per l’acido di dimensioni superiori a due metri per uno.
Le vasche, spinte su ruote appropriate, potevano sparire dopo l’utilizzo per dar spazio ad operazioni successive.
Quella famosa notte, era circa l’una del mattino, dopo aver trattato le lastre con più morsure d’acido (percloruro di ferro), decidemmo con Francesco di cambiare tecnica e di procedere con una nuova acquatinta per trattarla successivamente con pennello.
Questa decisione ci portò a rimettere al suo posto la vasca con l’acido, spingendola dall’esterno per farla entrare sotto la vasca fissa.
Tutto avvenne in un attimo. Una delle quattro ruote che sosteneva la vasca cedette sotto la nostra pressione e, senza rendercene conto, il liquido pesantissimo si accumulò verso la parte che stava cedendo e, come in un sogno, eravamo tutti e tre impotenti davanti a quanto stava accadendo.
Eravamo circondati da un amalgama velenoso, impotenti e sbalorditi allo stesso tempo. Da dove si doveva cominciare? Potevamo uscire da quell’incubo?
Forse la stanchezza ci fece scoppiare in una risata infantile che ci permise di reagire inconsciamente. Per prima cosa, mettemmo Francesco nella condizione di guadagnare la porta, togliendolo così dal nostro imbarazzo.
Finalmente, tre ore dopo il disastro, eravamo immersi nella vasca da bagno, con due bei bicchieri di vodka, certi di aver superato una prova estremamente faticosa.
Avevamo la sensazione di aver pagato molto poco, in rapporto alla violenza subita in quei pochi attimi, e di poterci cullare nel tepore e nell’incoscienza che pian piano avanzava, portandoci ad una profonda dormita nel nostro letto rilassante.
Alle sette del mattino, il campanello insistente alla porta ci richiamò dall’incoscienza e ci portò in una realtà allarmante!
Dopo aver aperto la porta di casa e visto il giovane architetto del mega “Studio di Architettura” del piano di sotto, col viso contratto e le mani piene di percloruro di ferro, fummo paralizzati, pensando alle conseguenze che si potevano attivare da quel momento.
“What is this…?” fu la domanda, “un sale” fu la mia risposta, e non era una bugia, in quanto in chimica il percloruro di ferro è considerato un sale pesante, e continuai: “in verità, questa notte abbiamo avuto un piccolo problema ma, prima di parlarne, vorrei capire come questo sale è arrivato nel tuo studio, potrei venire a vedere?”.
Il pesantissimo e maledettissimo acido si era infilato lungo i tubi del riscaldamento ed era precipitato al piano di sotto, proprio sul marmo bianco, base e sostegno del computer più avanzato e sofisticato che si poteva pensare per uno studio di architettura a quell’epoca, sfiorandolo di pochi centimetri.
Ci eravamo salvati!
Julian Schnabel
Francesco Clemente più volte, durante i periodi di lavoro a New York, ci accennò al fatto che Julian Schnabel era interessato a conoscerci. Aveva avuto modo di vedere i lavori di Francesco, quelli di Enzo Cucchi e di molti altri artisti da noi stampati, ed era convinto di poter realizzare con noi qualcosa di assolutamente innovativo.
Il primo incontro fu nel suo studio di New York, dove assistemmo, Eleonora ed io, ad una regia fantastica. In questo grande loft, i quadri, unici interpreti, iniziarono una danza di avvicinamento che, con un ritmo sincronizzato, apparivano da quinte formate proprio dagli stessi quadri che, per temi e periodi, facevano la loro apparizione.
Non ci rendemmo neanche conto di come e da chi venivano spostati, in quanto le opere erano così coinvolgenti ed il ritmo, concesso per la lettura, era così ben valutato da non permettere alcuna distrazione.
Il risultato fu che partecipammo ad un vero happening. Ciò ci permise non solo di conoscere le opere, nel giusto modo, ma di capire come proporci per non ripeterci e riuscire a sorprenderlo.
Sapevamo che avrebbe trascorso l’inverno nella sua casa e studio di Palm Beach.
Da New York era a poche ore d’aereo e così pensammo di fargli visita per fissare un possibile programma, sperando di vederlo al lavoro.
Eravamo curiosi di conoscere i percorsi di golf di quell’area che sapevamo molto belli. La cosa sorprendente fu che al secondo giorno eravamo già al lavoro ed il tempo per il golf si ridusse a brevi incursioni sul campo. E questo perché lo pretendeva il padre di Julian che, finalmente, con noi poteva giocare.
La fantasia in quei giorni ci aiutò enormemente in quanto, non avendo previsto di lavorare, non avevamo portato i materiali e gli strumenti utili per affrontare un vulcano di idee quale era l’artista.
Sfruttando elementi e materiali trovati lì sul posto inizialmente, e facendomi spedire, da New York, lo stretto necessario, riuscimmo ad attivare uno spazio creativo appropriato, al punto che prima ancora di terminare i primi due soggetti, programmammo il prossimo incontro che avvenne a Montouk, qualche mese dopo.
Montouk, la punta estrema di Long Island, una casa incredibile arroccata sul mare, precedentemente abitata da Andy Warhol, una natura assolutamente integra e selvaggia in preda ad ogni vento. Solida e severa, era un rettangolo ideale senza fronzoli come una torre medioevale. Ci dava la sensazione di un vero distacco dal mondo ma non da quello creativo in cui Julian si muoveva.
Quello spazio che, pur grande, era insufficiente per contenere le sole tele che l’Artista trascinava, di notte, sugli asfalti dei free-way circostanti per esasperarle.
Per poter lavorare ai suoi grandi cicli, allestì un grandioso studio nel giardino, una specie di anfiteatro, dove riuscimmo ad avere uno spazio tutto nostro.
Qualche problema esisteva, perché, nelle ore più calde della giornata, l’acido, che usavamo abbondantemente, si asciugava subito annullando, in parte, l’effetto di morsura.
Il sole che ci sovrastava partecipava sin dal mattino alla nascita di una serie straordinaria di incisioni e, al tramonto, ci obbligava ad interrompere e ad attenderlo sino al mattino seguente, dandoci così il tempo di capire dove eravamo e poter tirare il fiato.
Nella casa non c’era l’abitudine di alzarsi presto, così ne approfittavamo per andare a giocare a golf in un campo, vicinissimo, sul mare. Purtroppo la nebbia, ogni mattina, invadeva la costa e all’inizio ci impediva di godere il paesaggio circostante.
Pian piano il sole predominava, il paesaggio appariva come un miraggio, aggiungendo anche i suoni che la nebbia aveva assorbito. La luce sempre più forte scopriva, ai nostri occhi, il miracolo di una natura incontaminata.
Vedendo lavorare Julian, sulle sue grandi opere, ci rendemmo conto che le lastre un metro per due, inviate dall’Italia, erano troppo piccole. Il suo modo ampio di affrontare i soggetti non poteva sopportare dimensioni inferiori ad almeno due metri per un metro e mezzo.
L’unica soluzione fu di utilizzare due lastre sovrapposte sull’altezza di un metro. Arrivammo in questo modo ad avere la superficie desiderata.
Schnabel, in quei giorni, passava dalle tele dei suoi soggetti alle lastre, utilizzando gli stessi pennelli, con gli stessi ritmi e tempistiche. Il risultato che uscì dai torchi dello studio di New York ci tolse ogni dubbio. Aver preso la decisione di utilizzare le doppie lastre fu l’idea vincente.
Eravamo entrati nel mondo dell’artista sfruttando tutte le sue potenzialità, le opere “Flamingo”, “Tango” e “Pandora” si presentarono in modo prepotente.
La routine abituale, che avevamo dovuto abbandonare per i motivi climatico- ambientali, era stata sostituita dalla nostra esperienza, quasi incoscientemente, prendendoci per mano, dando libero sfogo alla parte ottimistica di noi, senza riserve.
Renato Guttuso
Alla mostra di Graham Sutherland nella nostra galleria di Roma ebbi l’occasione di incontrare, tra i visitatori, Renato Guttuso che non vedevo da anni, dopo un’esperienza non del tutto positiva, negli anni ’60, avuta con Franco Cioppi e della quale non seppi mai nulla di preciso.
Le bellissime incisioni di Graham furono l’occasione per incontrarci. In quella circostanza nacque la simpatia che ci permise di aprire un dialogo con favorevoli prospettive. C’era curiosità umana in Guttuso e forse il desiderio di recuperare un rapporto mai nato tanti anni prima.
Erick Steingraber, direttore dei Musei d’Arte di Monaco di Baviera, fu la liaison di un progetto che ci mise nella condizione di lavorare insieme. Ci propose di organizzare, nel suo Museo, una mostra, termine della realizzazione di un progetto dove Guttuso si sarebbe impegnato, con diverse tematiche, a lavorare intensamente nel nostro studio, con la tecnica dell’incisione. Acquaforte, acquatinta, puntasecca, in formati di qualunque dimensione e con un numero di opere tale da poter allestire una mostra che, da Monaco, poteva diventare itinerante.
La figurazione di Renato, così sorprendente, non ci intimorì, perché ci rendemmo subito conto di quanto grafico fosse il suo segno, contenitore assoluto del colore e della forma. Avviluppava lo sguardo e la mente, ed era “assoluto” nei momenti geniali, “canzonatorio e irriverente” nei suoi giochi di vita abituali.
La sua pittura, guardandola, potrebbe narrare la sua vita, non attraverso le immagini e i fatti, ma attraverso lo scorrere del suo segno come un racconto continuo senza fine. La lastra di rame, messa sotto le sue mani, non lo obbligò, neanche per un attimo, ad applicare una diversa attenzione: era il segno della sua vita che lasciava tracce, niente di più… niente di meno.
Il colore nasceva all’interno dei segni e ne veniva contenuto imbrigliando ed esaltando tutta la potenza mediterranea che sicuramente gli apparteneva.
Più ci introducevamo nel suo mondo, più interessante diventava il dialogo che la nostra curiosità andava a provocare ed esplorare con attenzione e rispetto. Risultava sempre più sorprendente la naturalezza e la semplicità con cui Renato ci faceva sentire a nostro agio.
Quando ci fu la presentazione al Museo di Monaco di Baviera e finalmente fummo in grado di vedere tutte insieme le incisioni prodotte ed esposte in quella splendida sede, fu una grande emozione per tutti ed in particolare per Renato. Fino a quel momento non si era reso conto di aver prodotto tanto lavoro e di così grande qualità in un insieme che sembrava programmato ma, in verità, si era svolto in modo naturale e spontaneo, forse inconscio.
Pochi artisti con i quali abbiamo lavorato sono stati nei nostri confronti così generosi, al punto di disconoscere la grafica realizzata prima di lavorare con noi, e dire davanti agli amici più cari, in nostra presenza: “L’unico rammarico che ho è quello di non averli incontrati prima”.
Il lavoro con noi influenzò la sua fantasia poetica, rinnovando ardori e sentimenti giovanili.
Francis Bacon
L’ esperienza con Renato Guttuso, collegata al lavoro fatto in precedenza con Sutherland, e successivamente con Cucchi e Clemente, ci portò a ripensare a Francis Bacon, che avevo conosciuto in una mostra a Londra, all’inizio degli anni ’70.
Riuscii ad avere un incontro con lui nel ’74 a Parigi e, subito dopo, nel suo studio a Londra.
Vedere il suo studio fu per me un impatto violento. Tubetti di ogni colore e dimensione pieni e vuoti, ammassati in ogni dove, rovinavano verso il centro dello studio, impedendo di muoverti senza l’attenzione dovuta. La sensazione era quella di sentirti totalmente a disagio. Non c’era un solo angolo che potevi occupare.
Anche un piccolo spazio non sarebbe mai stato tuo. Mai! Neanche per un secondo. Allo stesso tempo capii al volo che nel caos della sua vita, tutto era assolutamente coerente e necessario per cogliere da quel mondo istantaneità e movimento magico.
Gli elementi statici e monumentali vivevano nelle sue opere attraverso la tensione degli oggetti e delle cose che facevano parte di quel disordine. Il suo studio esaltava e rappresentava il vero stato d’animo dell’artista.
Mi spiegò, già dal primo incontro, che non era in grado di pensare in termini grafici, in quanto non aveva neppure mai tracciato una sola linea preparatoria su una tela e, men che meno, un bozzetto extempore.
Partiva sempre da una base di fondo nero, recuperando forme ed oggetti, il più delle volte solo immaginati o appena apparsi come ritrovati, che inciampavano spesso nelle linee di fuga tracciate come uno spartito musicale.
Note assonanti e dissonanti che accentuavano, con loro stridore, elementi di rifiuto di una realtà che solo un genio nascosto in un antro, cosparso di rifiuti umani vaganti, poteva pensare.
La grande metamorfosi che avveniva nel comportamento di Bacon, nello spazio di poche ore, mi stupiva.
Con lui al mattino era piacevole conversare; parlavamo in francese e la sua curiosità, nei miei confronti, affiorava, appena velata dalla sua timidezza.
Nella conversazione cercava di capirmi, di conoscermi meglio, probabilmente per valutare se era il caso di toccare un mondo che io conoscevo così bene ma era totalmente nuovo per lui. Pian piano che il tempo passava mi rendevo conto che, come nei suoi quadri, andava a cercare il nero… agitandosi, distraendosi improvvisamente al punto che non sapevamo come riprendere il discorso. Avrei dovuto entrare anch’io in quella nera caverna. Capivo che dovevo andarmene. Voleva rimanere solo con i suoi demoni!
Il tempo necessario solo per capire il comportamento che avrei dovuto avere con l’Artista era imprevedibile, sicuramente impossibile in tempi ragionevoli. Anche se mi tentava, era totalmente fuori da un logico progetto di lavoro, da indurmi a rimandare tutto ad un’altra occasione.
Quindici anni più tardi
Con la nostra base attiva a New York, contattai e convinsi Pierre Levée, della Galleria Marlborough, ad immaginare di realizzare alcune grandi incisioni di Francis Bacon.
Da anni il suo nome aveva un tale impatto e potenza, da poter aprire al mercato una visione improvvisa. Come un’apparizione senza precedenti.
Opere grafiche di Bacon se ne erano viste ben poche, e quelle poche solo in forma riproduttiva.
Dopo una breve e rapida esperienza tecnica con l’artista, per stabilire le condizioni necessarie per rendere il lavoro scorrevole, si passò ad affrontare un trittico a cui teneva moltissimo.
Capii dal primo soggetto che Bacon ci voleva portare su un terreno difficile, quello del colore, forse per metterci subito nella posizione più delicata. Ci impose, come sfida perentoria, “un arancio velenoso”, indefinibile nella sua infernale luminosità.
Un arancio con un’anima Dantesca.
Sicuramente, quindici anni prima, non saremmo stati in grado di superare e soddisfare una richiesta così sottile, avevamo raggiunto nel tempo molta esperienza e maturità.
Partimmo dal nero, come faceva lui nei suoi dipinti, con le giuste morsure d’acido ed i relativi rapporti di trasparenza, coprenza dei colori, decisi da Eleonora. Riuscimmo, già dalla prime prove, a stupire l’artista che si liberò da ogni pregiudizio negativo.
Da quel momento partecipò generosamente alla nascita del trittico con la massima attenzione ed interesse. Fu il presagio di una fattibile futura collaborazione per altre felici edizioni.
Eravamo rimasti d’accordo che sarebbe andato, nel periodo di Pasqua, a Barcellona da un amico per riposarsi, e subito dopo avremmo dato inizio ad un nuovo e più complesso progetto. Morì in Spagna.
Le tre opere rimangono nel mio soggiorno e in molte altre case fortunate in giro per il mondo. La loro presenza premia il nostro sforzo e la poesia di un grande artista.
Quel bambino di Hiroshima
Nel 1988 fummo invitati in Giappone a presentare la nostra Mostra “Big Prints From Rome”.
Per me e tutta la mia famiglia fu uno dei viaggi e soggiorni più eccitanti e felici che ricordi. Già dal primo incontro, per la mostra al Museo di Toyama, l’accoglienza fu qualcosa di tattile, come volessero, con le loro mani, toccarci per accertare che eravamo proprio noi. Sicuramente organizzare quella mostra con altri quattro Musei, in altrettante differenti città, occupò tanto tempo e risorse da non credere fino a quel momento che l’opera loro era finalmente compiuta.
Shu Takahashi2 fu il promotore della nuova avventura e con la sua presenza ed autorità alleggerì e rese tutto semplice e possibile.
Con Shu girammo per il Giappone per tre settimane. Toccammo luoghi e persone di estrema semplicità ed altri di grande eleganza e raffinatezza, tutto e sempre con rigore.
Ricordo a Kyoto, nei giardini, una nuvola di petali di fiori di ciliegio che ci accompagnava come una carezzevole nevicata. Ricordo, alla sera, il suono dei campanellini mossi dagli zoccoli delle Geishe dal fascino antico.
Ricordo le metropolitane di Tokyo con i suoi treni dai sedili foderati di velluto rosso, intatti, con un lindo appoggiatesta, lì, fresco dalla mattina. Non ricordo di aver notato un solo mozzicone di sigaretta, nel mio guardare, che cercava il difetto congenito nel resto del mondo: la sporcizia. Questo ordine generale non è dovuto ad una disciplina imposta ma ad una naturale, che è nel DNA dei giapponesi.
Il catalogo, le cornici, l’organizzazione non erano dei semplici particolari, ma esempi di professionalità. Anche negli Stati Uniti, dove tre anni prima era nata questa stessa mostra, non erano stati così attenti.
In quell’anno trovammo in Giappone un’euforia e una vitalità sorprendenti che non faceva minimamente pensare ad un tracollo imminente. Anche se il nostro amico Shu, più volte, mentre si lavorava nella Stamperia a Roma sulle sue ispirate incisioni, mi accennava che il loro mercato era molto teso e sperava non avvenisse un’improvvisa paralisi.
L’Artista ci aveva preparato, in tanti anni di lavoro fatto insieme, a considerare il fatto che il modo di guardare dei giapponesi è molto diverso dal nostro. La conseguenza è che ancora oggi rimane molto difficile che vengano da loro accettate, a priori, opere d’arte dell’ovest. Per lo meno il momento è prematuro.
Shu Takahashi era nato ad Hiroshima nel 1930. Era poco più di un bambino quando “Gilda” cadde dal cielo. Per data e per luogo si può immaginare il bisogno per un artista come lui di allontanarsi il più possibile dal nulla in cui si era trovato, e ripartire da zero.
Nel ’63 si trasferì a Roma, il suo interesse per il mondo artistico italiano fu concentrato sull’Avanguardia milanese che per lui voleva dire solo Fontana.
Lavorando con Shu, nei vari anni, mi resi conto di quanto ci fosse in lui del Samurai.
La poesia era molto forte nelle sue opere, nell’uomo predominava invece il freddo distacco diffidente, osservatore, era sempre pronto a dimostrare la sua autonomia.
Utilizzava le sue armi taglienti, per descrivere nei particolari, spesso ingigantiti, simboli dei suoi ideogrammi, sezionandoli con la sua fantasia.
1993: lo sgambetto
Il destino, a cinquantasette anni, mi fece lo sgambetto.
La folgore mi colpì all’altezza del cuore e fu necessario un devastante intervento. Mi aprirono il torace e i bisturi ci lavorarono dentro come gli artigli delle aquile che divoravano il fianco di Prometeo.
A parte i miei problemi di salute, le difficoltà aumentarono paurosamente per l’aprirsi di una serie di crisi a catena.
Al momento della grave malattia che mi aveva colpito, e per parecchio tempo dopo l’intervento, ho vissuto in un limbo dove tutto era fuori dimensione, gli affetti, le amicizie, i progetti, le ambizioni che avevano reso la mia vita una continua sfida. Vedevo tutto nebuloso, come se questo mondo appartenesse ad altri.
Nei momenti di lucidità e freddezza riuscivo ad intravedere gli spazi per semplificare le cose al massimo, per Eleonora ed i miei figli. Era stata tolta ogni speranza alle prospettive, peggio ancora, non potevo dare una continuità anche minima a quello per cui avevamo creduto così fortemente Eleonora ed io.
La passione e l’intelligenza applicata da Eleonora nel nutrirmi con ogni mezzo, mi aiutò a non arrivare ad essere debilitato, e perdere quella carica necessaria a mantenere il controllo della situazione, anche nei momenti di sgomento.
Fu così convincente da farmi credere di essere io a decidere della mia vita, con il mio comportamento.
Avevamo partecipato per più di trent’anni a creazioni esemplari per qualità e tecnica, avevamo goduto di queste nascite, e sofferto per la morte di chi, con noi, aveva gioito nel produrle.
Nonostante i miei personali problemi, il ridimensionamento era necessario, anche perché, dopo l’89, ci fu, nel mondo intero, una recessione terribile, in particolare nel mondo dell’arte.
Probabilmente, si era arrivati, proprio a New York, ad una Sodoma e Gomorra dell’arte, dove solo una carestia, di decenni, avrebbe selezionato e probabilmente salvato, solo i veri professionisti.
Gli artisti, a New York, furono i primi a rendersi conto che il mercato stava dando segni di recessione. La più evidente causa fu il ruolo delle case d’asta americane che per anni avevano dettato e confuso il ruolo delle gallerie, anche le più importanti. Si erano imposte con valutazioni e vendite bilionarie, non immaginando che il grande mercato delle gallerie e tutti gli addetti del settore ne avessero approfittato inconsciamente. E questo in tutta la sua abnorme filiera, allargandosi a macchia d’olio, distribuendo in tutto il mondo false, e spesso ingiustificate, quotazioni.
Giovani rampanti che si avvicinavano all’arte come fossero divi o professionisti degli sport più pagati, con gli stessi atteggiamenti, partecipavano alle aste, ponendosi, oltre che con le opere, con le immagini che si erano costruiti di loro stessi.
Un’altra causa importante fu che l’arte entrò come moda nelle case e uffici della “Grande Mela” in modo ostentato, superficiale. Il più delle volte si pensava ad investimenti speculativi… sbagliatissimo!
L’Europa era stata trainata in questo meccanismo perverso, non rendendosi conto del grande mutamento che stava avvenendo. Il mercato del vecchio continente continuò indisturbato a sostenere le teorie nate oltremare. Si pensava che fosse semplicemente uno dei tanti periodi già superati nel passato, e che l’Europa, a cavallo dell’est e dell’ovest, poteva attendere, sicura di essere il calmiere necessario ed insostituibile.
È evidente che per chi come noi aveva lavorato con artisti come Burri, Fontana, Afro, Chillida, Calder, Miró, Moore, e tantissimi altri grandi, non era facile accettare quel momento e in più veder nascere stamperie, ogni giorno, che producevano di tutto: poche in modo corretto ma povero, molte in modo scorretto e disonesto.
La casa e la stamperia di New York furono le prime ad essere sacrificate, bastava pensare alla lontananza e alla crisi in atto per convincersi rapidamente.
Tutta l’attrezzatura era desiderata dai nostri amici Artisti residenti negli Stati Uniti, ma per non far torto a nessuno misi tutto in un deposito per future decisioni.
La Stamperia alle Terme di Caracalla, con la magnifica casa, non mi permetteva nessun ridimensionamento. Come era impiantato il tutto, due erano le possibilità: chiudere, oppure trasferirsi, separando, per prima cosa, la casa dalla stamperia, riducendo notevolmente la seconda… in attesa…
Solo un evento positivo: mio nipote Alessandro, nato dal matrimonio di mio figlio Davide con Giulia, in pochi mesi mi fece pensare ad una mia nuova presenza paterna, quasi d’obbligo, sicuramente più attenta a cogliere quello che per età e per il fascino del mio lavoro non avevo fatto con i miei figli.
Osservare una creatura nella quale vedi tuo figlio, vedi te stesso, ti mette nella condizione di rivedere la tua infanzia e la vita meravigliosa che ti passa davanti. Vorresti e vuoi ad un certo momento sfidare gli eventi e vivere intensamente il tempo che rimane, qualunque esso sia.
Io ed Eleonora avevamo partecipato alla creazione di tante opere credendoci fermamente, e sapevamo che l’opera d’arte ha valore solo nel momento in cui si lascia leggere, e lascia una traccia così forte che la sua eco non si perda e continui ad attirare gli interessi di chi ama il bello.
Di bello si tratta, e sono assolutamente certo che molte opere uscite dalla Stamperia sono da ritenersi belle perché opere d’ingegno, opere d’arte.
Bella era Margherita mia nipote, quando nacque, bella come un fiore.
Davide e Simona
Basta! Sul momento di oltrepassare il limite significativo dei settant’anni, mi è sembrato giusto rendere un omaggio a quei grandi personaggi della pittura del ’900 con i quali Eleonora ed io abbiamo avuto la fortuna e il privilegio di lavorare. Oltre ad un omaggio dovrebbe essere un bilancio personale, ma non possiamo tracciarlo perché non sarebbe definitivo.
Ne abbiamo fatte tante e possiamo solo dire che il più è fatto ma non dobbiamo mettere la parola fine alla nostra splendida avventura, tanta è la vitalità che ci sentiamo ancora in corpo perché tanto è l’amore per il nostro mestiere.
A questo punto, dopo tanti ritratti, grande è la voglia di parlare dei nostri figli, Davide e Simona, ai quali abbiamo dedicato solo pochi cenni, ma hanno avuto una grande parte nella nostra vita.
Devo ammettere che il lavoro era così entusiasmante che non ci permetteva di essere dei genitori classici, troppo protettori dei figli. In più il rapporto tra me ed Eleonora era molto solido, e questo dava a noi due una grande forza ma, in qualche modo, i figli ne erano gelosi, non sentendosi unici al centro dei nostri interessi ed attenzioni.
Fu la montagna l’elemento che ci permise di raggrupparci finalmente e di poterci sentire una famiglia unita, affettuosa e felice.
Ricordo tutte le discese dal Ruitor, dal Gran Paradiso, dal Piccolo e Gran San Bernardo, dal Bianco ed in tutte quelle magnifiche vallate Francesi e Svizzere che raggiungevamo con gli sci. Ricordo le splendide colazioni in quelle deliziose baite, stretti uno vicino all’altro in attesa che il fuoco del camino ci scaldasse, gioiosi e fieri di aver superato insieme nuove imprese.
Ma c’era di più. Approfittavo in ogni modo di mettere a frutto quelle lunghe vacanze per capire se la nostra professione suscitava nei ragazzi curiosità e interessi. Mi aspettavo, vedendo con quanto entusiasmo contemplavano le cose intorno a noi, che questo l’invogliasse ad entrare nel terreno dei segni e dei sogni.
Sognare è bello quando si è soli. Ma nel mondo della grafica bisogna condividerli con gli artisti perché noi rimaniamo comunque dei tecnici anche se in ogni creazione abbiamo vissuto parte delle commozioni, con loro.
Il mio ragazzo frequentava l’università a New York e viveva nella nostra casa di Broome Street.
Per noi era una buona occasione per stare con lui e seguirlo nelle sue inclinazioni, che erano orientate all’informatica, in particolare l’immagine digitale, ancora ai primordi. Ricordo che mi stupì molto la sua decisione nel riprendere Nancy Graves al lavoro nello studio. E riprendeva immagini su immagini, per ore. A quel punto pensai che si stesse avvicinando al nostro lavoro.
Davide si impegnò nell’immagine digitale negli anni successivi, per poi tornare a volare nel suo universo informatico. Era molto difficile per me seguire i suoi viaggi di moderno Ulisse nello spazio cibernetico.
È giusto che sia così perché io sono un uomo del passato e lui del futuro.
Un moderno Ulisse: sì! Davide a 20 metri sott’acqua lo vedevi con calma accarezzare le cernie, sfiorare in modo sensibile tutti gli elementi che lo circondavano.
Era accettato dal mare come da tutto quello, di naturale, che anche da bambino sapeva rispettare e osservare con amore.
Ecco che le sue api, per ultime, lo riconducono in uno spazio limitato di quattro miglia che appunto corrisponde alla distanza acconsentita dalla natura a quegli insetti fedeli per riportare il polline.
Vuole stare solo, pronto per i suoi bambini, forse per raccontare loro quello che realmente conosce e apprezza: come amare la natura.
Altro carattere
Simona, sin da piccola, era curiosa, intraprendente e dotata di una straordinaria vitalità. Non c’è ritratto dove i suoi occhi appaiano distratti: sono sempre pungenti, vogliosi di sapere. Per non dire della sua immaginazione e fantasia, del bisogno di dialogare e comunicare con gli altri senza badare alle lingue che si parlano.
Creativa? Sì ! Molto creativa da stupirti.
Aspettative? Sì tante! Per entrambi i miei figli.
Simona si era inserita nella scuola e tutti i suoi interessi e amicizie erano in quell’ambito.
Avevamo scelto per i figli la scuola inglese perché negli anni ’68 quella italiana era in grandi turbolenze. Inoltre ci eravamo resi conto della facilità con la quale avevano appreso la lingua inglese. Basti dire che Simona fece domanda per essere ammessa alla Parsons Academy di New York e fu accettata al primo colpo. Ma noi, dopo l’esperienza di Davide, che non si era trovato bene, non ritenemmo pensabile lasciarla sola in quella città.
Quel “no” fu una ferita che forse ancora, dopo tanti anni, non si è chiusa nel cuore di Simona. E dopo tanti anni anch’io ed Eleonora ne proviamo una specie di rimorso, la nostra intermittente attenzione non ci fece capire una cosa: forse quella sua scelta era un cauto avvicinamento al mondo dell’arte.
Simona continuò a frequentare Lettere ma allo stesso tempo decise di occuparsi della galleria, che a quel tempo era in Via De’ Delfini, luogo estremamente suggestivo della vecchia Roma.
Per il carattere di Simona ci voleva però qualcosa di più estroso, di più bohémien. E fu lei a trovarsi in via delle Mantellate il suo spazio.
Io ed Eleonora, inclini sempre all’avventura e forse un po’ per un inconscio pentimento per averle dato quel grande dispiacere della Parsons, non abbiamo avuto paura di fare una grossa puntata in quel momento. La grafica era in profonda depressione così come tutto il settore dell’arte.
Spostammo la galleria al nuovo indirizzo.
Ci voleva proprio la fantasia e la creatività di Simona perché quella fabbrichetta dissestata potesse divenire una deliziosa ed accogliente conchiglia per il suo lavoro e la sua vita.
È Simona che ora ha ripreso nelle sue mani il progetto: Fondazione “Gabinetto della Stampa d’Arte Moderna Contemporanea”.
Malgrado tutte le difficoltà che si possono immaginare, qualcosa che ci veniva da dentro ci spinse a tenere attiva la stamperia. Per la quale abbiamo anche un ambizioso progetto che prenderà un nuovo nome: Laboratorio – Officina contemporaneo.
Chi vivrà vedrà. Ma anche, per un vivo desiderio di Simona, se potremo perpetuare la nostra scuola di maestri incisori varrà la pena di aver lavorato tanto con tanta gioia.
Occhi che indagano, occhi che accolgono, occhi attenti e curiosi che ti filtrano, occhi infantili ma consapevoli. Sono quelli dei miei nipoti Alessandro e Margherita.
Attraverso il loro sguardo ho rivisto brillare la stessa lucetta che un tempo mi aveva attratto verso Eleonora. E attraverso il loro limpido sguardo io e mia moglie riusciamo ad intravvedere una speranza, che anche a loro tocchi la fortuna di ripetere i nostri grandi viaggi nel mondo della fantasia, e del bello.