Giacomo Manzù
opere grafiche
2RC Roma – Milano – 1979
Testo di Lorenzo Trucchi
Non v’è dubbio che questo sia un momento creativo particolarmente felice per Manzù, se non addirittura il più felice, per l’armoniosa globalità degli esiti che mentre comprendono e riassumono tutte le precedenti esperienze, alla pari, le rinnovano con una qualità ed un rigore che sempre più sembrano coincidere con un massimo di libertà immaginativa ed espressiva. Se ne è avuto prova lampante pochi mesi fa con la mostra allestita alla Raccolta Amici di Manzù di Ardea, ricca di una trentina di bronzi e di altrettanti disegni, tutti eseguiti negli ultimi tre anni, e se ne ha ora una conferma con questo fragrante mazzo di acqueforti e acquetinte appena uscite dai torchi della 2RC.
II disegno per Manzù – è quindi sia pure indirettamente l’incisione, data che, come vedremo, non vi sono per lui differenze profonde tra i due generi – e sempre stato un momento primario della sua attività. E del resto da Michelangelo a Bernini, da Rodin a Giacometti, gli scultori sono tra i maggiori disegnatori. Non a caso che disegnare è visualizzazione della forma e visualizzarla e capirla a fondo nella sua struttura, nei suoi volumi, nei suoi ritmi. Disegno, dunque, quello degli scultori, eminentemente costruttivo ma anche mezzo insostituibile per filtrare o decantare quelle componenti più emotive della forma che spesso fanno invece tutt’uno con la materia. Si avverte insomma nel disegno degli scultori come prima che nello spazio, incarnate nella materia, le forme vivano nello spirito. Ma d’altra parte, questa «vita delle forme nello spirito» non è esclusivamente astratta. Ricordiamo Focillon: «L’idée de l’artiste est forme, et sa vie affective prend le même tour»
Ebbene questo processo e molto intenso in Manzù che da sempre ha pensato, fantasticato, ricordato, goduto, sofferto, contestato, in una parola vissuto, per forme. Preciso forme, non immagini. Credo infatti che la costante fedeltà a poche immagini, iterate da anni ed anni, sia propria la prova di come questo grande campione di figuratività sia appunto un maestro di forme, meglio un maestro della «vita delle forme», intesa in tutta la sua complessa estensione. Se la vocazione artistica è stata in Manzù oltreché irrefrenabile molto precoce, non altrettanto lo è stata la conquista di uno stile, di un autonomo linguaggio. Non torneremo qui su quanto in modo magistrale ed esauriente è stato scritto sull’importanza che sull’artista appena ventenne ebbero Maillol, Medardo Rosso e Rodin, ne staremo ad elencare le convergenze esteriori che hanno confluito a formarlo e a maturarlo. Basti dire che la sua preistoria, che va all’incirca dal 1929 al 1936, pur cos1 promettente e trepida nel «naturale germoglio di vita» e nella quale le doti più specifiche erano tutte potenzialmente attive, dimostra con quanta tremore, ostinazione e fatica Manzù cercasse non se stesso ma lo stile di se stesso, come si cerca una seconda pelle più fine e sensibile da far aderire a quella spessa e calda del temperamento, degli istinti. Stile che per lui mai avrebbe potuto nascere attraverso ricerche e sperimentazioni esclusivamente intellettuali o lessicali ma appunto da quel variato scambio, da quell’incessante travaso tra arte e vita, meglio tra la vita delle forme e le forme della vita. Manzù non è nato «virtuoso» e per questo non è diventato ne potrebbe mai diventare un manierista, seguitando oggi come ieri, sia pure ormai con gli strumenti affilatissimi di un mestiere portentoso, di una tecnica diventata essa stessa attività creatrice, a dubitare, a cercarsi, a trovarsi. E qui va fatto «l’elogio della mano» di Manzù, alleata fedelissima del suo quotidiano travaglio creativo, captatrice sismografica dell’idea della forma ed esecutrice ad un tempo sapiente e fulminea. Di questa salda alleanza si ha una prova nei recenti disegni dell’artista, definiti da Brandi «una sorpresa» per «la finitezza senza pari, ma per nulla accademica, e d’una irruenza di segno che stacca l’immagine dalla carta». Ebbene a me pare che la medesima sorpresa si ripeta ora per queste recentissimi incisioni.
È soprattutto la chiara volontà della forma, così diretta, fresca e, tuttavia ferma, ragionata, a costituire il fascino accattivante di questi fogli. Fuori dalle incertezze e dai capricci delle morsure, tutto si risolve nel segno, graduate e modulato dalla forza di appoggio della mano. Ora breve, aggressiva, tagliente, ora fluente, carezzevole, lieve. Esatto nell’accusare i volumi con costante padronanza, arditamente dinamico quando l’urgere del dire è più impetuoso, febbrile. In genere c’è una tendenza alla sintesi, al folgorante compendio, anche quando si indulge nel dettaglio: la gala arruffata della sottana, i piccoli fiori della morbida vestaglia, i chicchi della collana, diventano così altrettante accentuazioni percettive più che indulgenze narrative. Lo stesso colore così delicato, vicino alle trasparenze dell’acquarello ha una semplicità, un profumo vivo come di erba appena tagliata. E proprio questo colore ci riporta a certi disegni di Rodin di giovani, «mattinali» corpi di donne in movimento macchiati nei capelli o nelle vesti di rosso, di bruno, di azzurro, di rosa. Ma mentre si sente che Rodin traccia quegli atteggiamenti quasi senza staccare gli occhi dai modelli, qui ogni posa o gesto appare ripercorso e rivissuto mentalmente conferendo all’immagine una sua mentale astrattezza.
Per incidere Manzù adopera una punta morbida, simile ad un pennino, e affronta la lastra con impeto, senza correggere. Commenta esplicito: «Poca cucina, ne olio, ne burro, e quando non va si ricomincia da capo». Tuttavia, come accade anche nella scultura resta talvolta qualche rara linea non utilizzata, impronta di una energia, di un ardore operativo.
I temi di queste incisioni sono tutti noti. Manzù se li porta dietro da sempre, può lasciarli ma «non Ii congeda» mai del tutto. Sono nati con lui, con la sua maturità di artista. Ecco, ad esempio, «II pittore e modella», i cui prototipi risalgono al 1935 e gli, «Amanti, I» anche questo un tema ricorrente da anni. Si tratta nei due casi di uno stesso problema formale, quello di due figure ravvicinate, e sono proprio la fusione dei corpi in unica struttura, il compenetrarsi dei volumi, il groviglio delle vesti ad interessare Manzù nell’uno e nell’altro caso ma, d’altra parte, le forme non avrebbero questo scatto questa emozionante pregnanza se a caricarle non ci fosse la miccia di una realtà di sentimento profondamente vissuta, goduta, patita. Ed ecco i «ritratti di Inge», immagini taglienti eppure dolci, che Manzù potrebbe fare ad occhi bendati tanto amorevolmente e saldamente le possiede. I più belli (il «Busto di Inge, I» e il «Busto di Inge, II») sono di una grande essenzialità. Manzù toglie, non impoverisce. La figura ne esce solenne ma non mitizzata come una languida Elizabeth Siddal, anche se avvolta come I’ eroina dei preraffaelliti in copiose vesti; si veda, a questo proposito, la differenza dei panneggi cosi modernamente risolti, sempre «abitati dalla figura» come voleva Leonardo, mai fredda copia di modelli antichi.
L’opera grafica di Manzù catalogata da Alfonso Ciranna sino al 1968, pur attraverso pause talvolta lunghe, non si è mai interrotta. Iniziata nel 1929 con poche, acerbe prove di sapore· «primitivo» è proseguita nel 1934-36, d’improvviso autonoma e in diretto rapporto con la raggiunta originalità della scultura, con le versioni del «Pittore con modella», un tema poi proseguito nel ‘42: sette studi per il Manzù pubblicato dalla Domus. Altro momento che segna un rilevante scatto stilistico da una abbondanza di effetti cromatici ad una linearità di nitore classico, è quello delle illustrazioni per «Le Georgiche». Lavoro lungo e copioso, iniziato nel ‘45 e conclusosi tre anni dopo con la pubblicazione di quattordici acqueforti di scelta definitiva edite dalla Calcografia Nazionale. Nuova concentrazione di opere nel ‘53-‘54 con gli studi preparatori e le sette litografie pubblicate come illustrazioni del libro «Il falso e vero verde» di Quasimodo, ispirate al clima doloroso della guerra. Più recenti i fogli di «Le opere e i giorni» e le acqueforti per «Edipo Re» del 1967.
Per molto tempo l’opera incisoria di Manzù è stata poco nota perché costituita da esemplari unici o da tirature molto limitate, l’artista ha infatti sempre distrutto le lastre. Esposta per la prima volta a Venezia nel 58 alla Bevilacqua La Masa con un saggio di Giorgio Trentin e, quindi, nel ’64, alla Nuova Pesa di Roma e al Gabinetto Disegni e Stampe dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Pisa con una illuminante presentazione di Ragghianti (catalogazione a cura di Giorgio di Genova), ha trovato in questi ultimi decenni una più vasta notorietà ed è stata oggetto di ripetute mostre in Italia e all’estero. Ma soprattutto con i risultati di queste splendide acqueforti e acquetinte che essa ancor più si salda al disegno e all’opera plastica di Manzù: espressione certo meno feconda ma non meno intensa di un identico fervore creativo.