Victor Pasmore
opere grafiche – 1990
Testo di Giulo Carlo Argan
Il lavoro di Pasmore è tutto una ricerca sulla percezione a occhi chiusi. Gli occhi non cessano mai di percepire, quando non vedono più una realtà esterna vedono la propria. Le macchie che vediamo formarsi e muoversi sotto le palpebre dimostrano che gli occhi vivono e pulsano anche quando non servono a informarci sulla realtà dei mondo. L’occhio, insomma, non cessa di percepire e immaginare: potrebbe dirsi che un’immaginazione ottica precede l’immaginazione mentale, ma non sarebbe giusto perché la separazione tra fisico e psichico, o peggio, spirituale è un pregiudizio e la pittura di Pasmore lo dimostra. D’altra parte le immagini a occhi chiusi provengono da emozioni visive, dunque hanno una componente mnemonica, proprio come l’mmaginazione verosimile o la fantastica. Da un punto di vista scientifico la ricerca di Pasmore è illuminante perché coglie e studia l’immagine prima che sia l’immagine di qualche cosa. Più correttamente si dirà che la generatrice è un’emozione luminosa pura, cioé d’una luce che c’è ma non illumina nulla e genera immagini che non sono immagini di qualche cosa. L’opera di Pasmore va dunque inquadrata nelle ricerche moderne e sulla sostanza e la funzione intellettiva della percezione; anzi, è quella che maggiormente risale all’origine perché dell’occhio considera la realtà fisica indipendentemente dalla sua funzione.
Pasmore, però, va molto oltre il limite razionalistico di quelle ricerche visuali-cinetiche. Le sue immagini sono formate secondo uno spirito di esattezza che però non è uno spirito di geometria. La loro struttura è simile a quella della poesia di lingua inglese da Eliot a Pound; e naturalmente non alludo ai contenuti poetici, ma all’eguale, sostanziale purezza delle immagini e delle parole. In quei poeti la costruzione della frase de-significa le parole finché non rimangono purissimi suoni armonizzati. Non per questo perdono ogni significato: semplicemente -trasformano il referente in connaturato e consustanziale contenuto semantico. Così, almeno, mi sono spiegato una strana qualità della pittura di Pasmore: paradossalmente fa poesia muta come quei poeti pittura cieca. E la sua pittura è piana e leggera ma, come quella poesia, satura di pensiero: una delle scoperte della filosofia moderna è che il pensiero non è necessariamente denso e profondo, può essere leggero e trasparente. Allora sarà difficile separare la filosofia dalla pittura e dalla poesia, ma fu così anche in altri tempi, per esempio in Grecia prima di Socrate.
La forma di Pasmore nasce con le macchie che si formano negli occhi chiusi e dileguano quando si aprono, ma questa risalita al momento primario dell’esperienza non annienta la storia. Proprio nella cultura inglese dell’illuminismo la macchia, blot, fu un fattore genetico dell’arte: si crede che sia casuale, spiegò Cozens, ma nulla veramente lo è. Quanti movimenti inconsci della mano, quante leggi fisiche incalcolabili non hanno concorso a produrre la macchia d’inchiostro così come la vediamo sul foglio dei disegno? E, allora, non sarà il prodotto di una continuità tra il nostro essere e l’essere dei mondo? Pasmore, non va dimenticato, prima di passare alla non-figurazione è stato un paesaggista oscillante tra natura, simbolo e sogno. Poi chiuse gli occhi scoprì la delicata, imprevedibile fantasia della cecità. Libera ormai dalla prepotenza delle sensazioni, ha una sua straordinaria giustezza o esattezza che non discende da un modello matematico eppure è precisa come una forma geometrica; e senza discorso, solo per il suo ritmo interno, genera altre immagini e un movimento di cui non si vede la causa, ma affascina. Da molti anni Pasmore vive a Malta, la luce che lo abbaglia e gli fa chiudere gli occhi è quella dei Mediterraneo; così, ad occhi chiusi, seguita ad essere, come fu, un grande pittore di paesaggi di fantasia. Come Turner.